La Fondazione Giovanni Paolo II lavora per l’inclusione sociale, economica e culturale della minoranza nella diocesi di Bassora
di Thibault Yves Joannais
Ai lati della strada che porta da Baghdad a Bassora un sottile manto bianco di sale ricopre la terra rossiccia. Il fenomeno della salinizzazione delle terre è dovuto alla forte riduzione negli ultimi decenni della portata dei due fiumi che abbracciano la Mesopotamia, il Tigri e l’Eufrate, e all’inquinamento delle loro acque. Ogni tanto si intravede qualche campo di grano – qui è già tempo di mietitura – e qualche bufala a passeggio tra le palme provveditrici di nutrienti datteri. La città di Bassora, a sud dell’Iraq, è adagiata sulle rive del Shatt al-Arab, il fiume nato dal confluire più a nord del Tigri e dell’Eufrate. Una terra ricca di storia (i Sumeri), di meraviglie naturali (le paludi di Hammar e Hawizeh) e di petrolio. La città è circondata da decine di torce di gas visibili in lontananza, segni tangibili della presenza nel sottosuolo di una ricchezza che, a dire di molti, è una disgrazia. Qui petrolio è sinonimo di inquinamento dell’aria e delle falde acquifere, all’origine di un aumento vertiginoso dei tumori in particolare tra i bambini e i giovani.
A Bassora le società straniere impegnate nell’attività estrattiva sono più di settecento, però meno del 10 per cento dei loro dipendenti sono iracheni. Il petrolio non è quindi sinonimo di lavoro in una città dove il 50 per cento dei giovani è disoccupato. Questo esercito di disoccupati si è riversato in parte nelle Forze di mobilitazione popolare (Fmp, Hashd al-Shaabi in arabo), nate nel 2014 per sopportare l’esercito regolare nella lotta contro il sedicente «Stato Islamico» (Isis oppure Daesh). Dopo la riconquista di tutto il territorio iracheno caduto fra le mani dei seguaci del «Califfato», lo scioglimento delle milizie non è mai avvenuto e ancora oggi esse sono onnipresenti in molti settori, dalla politica all’economia sommersa. Questo è particolarmente vero a Bassora, da dove è partito il 70 per cento dei combattenti delle Fmp. Il sud dell’Iraq è a stragrande maggioranza sciita. A differenza di altre città irachene, però, Bassora non è costellata di moschee imponenti, forse perché la necessità di marcare il territorio e di segnare i confini non sussiste laddove la maggioranza confessionale è scontata. Prima della guerra contro l’Iran tra il 1980 e il 1988, Bassora contava circa 4.000 famiglie cristiane di diversi riti. Oggi sono meno di 350, delle quali circa la metà è cattolica di rito caldeo. Ce ne parla l’arcivescovo di Bassora dei Caldei, monsignor Habib Hormiz Jajou al-Nawfali, in carica dal 2014: «Ci sono 14 chiese a Bassora ma soltanto 6 sono ancora aperte al culto. Nella mia diocesi ci sono soltanto 2 sacerdoti caldei. Sono inoltre presenti un sacerdote cattolico latino, uno armeno apostolico, un siro-ortodosso, un pastore presbiteriano e un vescovo sirocattolico.» Un «piccolo resto» che non rinuncia a essere «sale della terra»: in città si trovano 3 scuole materne (due cattoliche e una protestante) e una scuola elementare cattolica. Tutte sono molto ambite perché scuola cristiana è sinonimo di qualità dell’insegnamento, e il 97 per cento dei loro alunni è di confessione islamica. «Siamo iracheni come i nostri fratelli musulmani – prosegue monsignor Habib – e intendiamo dare il nostro contributo allo sviluppo sociale del paese».
La diocesi caldea di Bassora è, insieme a Caritas Iraq, partner del progetto «Inclusi di diritto! Verso un’inclusione effettiva e partecipata della comunità cristiana in Iraq», finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo sviluppo (Aics) e attuato dalla Fondazione Giovanni Paolo II di Firenze, presente in Iraq dal 2009. Per migliorare l’inclusione sociale, economica e culturale della minoranza cristiana, sono in corso di realizzazione percorsi di
formazione professionale per i giovani, corsi di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole materne cristiane di Bassora, percorsi di promozione dei diritti umani e di espressione artistica. «Si tratta di un’iniziativa importante – ci conferma il vescovo Habib – perché molte organizzazioni lavorano soltanto in Kurdistan o nella piana di Ninive dove i cristiani sono numerosi, e si dimenticano di noi. Abbiamo bisogno della vostra vicinanza spirituale e concreta».
L’importanza di una presenza cristiana non consiste soltanto nel tenere aperte le chiese bensì nella preservazione di un humus di tolleranza e di convivenza pacifica, di attenzione e di cura per la persona umana. I cristiani hanno una vocazione di ponte tra comunità che, spesso, si contrappongono le une alle altre. La loro scomparsa sarebbe un dramma per tutti.
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