L’impegno della Cooperazione italiana nel Libano delle tante crisi, ma anche della grande voglia di riscatto della popolazione, parte dalle potenzialità offerte dall’agricoltura nel tentativo di accendere una luce alla fine del tunnel
di Gianfranco Belgrano 7 Febbraio 2023
Un mosaico di storia segnato da crepe preoccupanti, un meraviglioso quadro di volti, culture e religioni, appeso a un muro pericolante. Questa l’immagine che il Libano sembra mostrare per una serie di crisi che da alcuni anni ne hanno minato coesione sociale e stabilità economica, finanziaria e politica. Gli anni della guerra civile sono lontani, benché i segni di quel conflitto siano ancora molto evidenti, e oggi sono mali di altro segno quelli che gravano sul Libano, resi più gravi da un contesto globale caratterizzato dalla pandemia e dal conflitto in Ucraina.
I numeri sono impietosi. Secondo i dati della Banca mondiale, il Pil che nel 2019 era di 52 miliardi di dollari, nel 2021 è crollato a 23,1 miliardi. In mezzo c’è stata la pandemia e c’è stata anche un’esplosione al porto di Beirut con effetti economici e politici ancora ben presenti. Per il 2022 la stima è di un ulteriore calo del 5,4%. Nello stesso periodo la disoccupazione è passata dall’11,4% al 29,6%, mentre l’inflazione ha navigato a tripla cifra. E alla guida del Paese non siede ancora nessuno, perché da mesi non si riesce a eleggere un nuovo capo di stato.
“Cooperare con il Libano significa impegnarsi a fianco di un piccolo Paese, grande come l’Abruzzo, con una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, che ospita da quasi un decennio più di un milione di rifugiati siriani. Una presenza che ha pesato sui già deficitari servizi pubblici e ha inciso negativamente sul mercato del lavoro” sottolinea Alessandra Piermattei, titolare della sede di Beirut dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics). “Dal 2019 – aggiunge – la situazione è stata aggravata da quella che la Banca mondiale ha definito la più pesante crisi economica degli ultimi 150 anni. Per questo la Cooperazione italiana ha finanziato iniziative da un lato volte a sostenere le istituzioni nazionali libanesi e le comunità che ospitano il maggior numero di rifugiati e i gruppi sociali più vulnerabili, senza fare differenze in base alla nazionalità. Dall’altra continuiamo a promuovere programmi che puntano a costruire o a rafforzare realtà capaci di essere volani per lo sviluppo sostenibile del Paese”.
Il lavoro della Cooperazione italiana nel settore agroalimentare in Libano
Uno degli ambiti in cui la Cooperazione italiana si è concentrata negli ultimi anni è quello dell’agroalimentare con tre obiettivi specifici: contribuire a migliorare la produzione, aiutare ad aprire nuove vie commerciali per piccoli agricoltori e cooperative, rafforzare le capacità di generare reddito e dove possibile di creare posti di lavoro. Un lavoro che ha fatto perno sulle specializzazioni dell’agricoltura libanese e sulle competenze italiane, ben radicate nell’agricoltura e nell’industria di trasformazione.
Così, per esempio, con Mazeej – progetto condotto insieme all’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (Unido) – si è scelto di puntare sullo zaatar, il timo, vero e proprio simbolo nazionale. “Il progetto – racconta Nada Barakat, national project coordinator di Unido – è stato l’ultimo tassello di un percorso avviato nel 2011 e concluso nel 2022. Siamo riusciti ad aggiungere valore a una filiera importante per il mercato interno libanese, sono state create partnership e aperti percorsi di export verso Unione Europea, Canada e Arabia Saudita”. Mazeej ha inoltre consentito di sostenere 595 posti di lavoro, ha coinvolto 1133 comunità rurali e 552 donne e consentito di acquisire macchinari e innovazioni.
Il profumo delle ciliegie di Qaa El Rim
Lungo questo percorso di valorizzazione dell’agricoltura libanese, insieme alla Fondazione Giovanni Paolo II, Aics ha sostenuto alcune aree montane del nord del Libano puntando in questo caso sulle colture dell’albicocca (a El Qaa) e della ciliegia (a Qaa El Rim). “Quello che abbiamo messo a comun valore è stata l’esperienza italiana nell’ortofrutta in un’area a forte abbandono ma con la presenza di filiere dal potenziale importante” spiega Stefano Baldini, agronomo toscano dal 2018 a Beirut. Qui la Cooperazione ha lavorato con piccole aziende familiari innanzitutto migliorandone gli standard produttivi e guidandole lungo un percorso di aggregazione in forma di cooperativa (ne sono state create due, mentre altre due sono state coinvolte).
“L’aggregazione di queste piccole imprese – continua Baldini – ha consentito di fare investimenti e di creare dei brand con un catalogo unico. Ha allo stesso tempo aiutato a costruire centri di stoccaggio per la conservazione delle ciliegie e una più semplice esportazione verso i mercati internazionali”. Uno di quelli che ha risposto meglio è stato quello di Dubai. E c’è stata anche la soddisfazione di aver realizzato qualcosa che ha mostrato resilienza: dopo il calo dovuto alla pandemia e alle restrizioni internazionali, le cooperative hanno ripreso a lavorare diventando un simbolo di importante coesione sociale in un momento difficile.
Le terrazze dello Chouf
Cuore del territorio della comunità drusa libanese, la regione dello Chouf è caratterizzata da terrazzamenti non molto dissimili da quelli che si possono vedere in Liguria. E proprio con il Parco delle Cinque Terre si è giunti a siglare una collaborazione con scambio di conoscenze ed esperienze veicolata nell’ambito di un progetto di cooperazione che Aics ha qui condotto con l’Istituto Oikos, organizzazione impegnata soprattutto nella tutela della biodiversità.
Se a Beirut la corrente elettrica pubblica viene erogata non più di un paio d’ore al giorno, nello Chouf la situazione è anche peggiore. “Ma ciò paradossalmente si è tradotto in un effetto positivo” dice Mirko Panichi, responsabile Paese per l’Istituto Oikos e dal 2018 in Libano. “La carenza di corrente elettrica ha infatti spinto ad affidarsi in maniera importante ai pannelli solari, tanto da diventare in poco tempo un elemento caratterizzante delle abitazioni”. Un altro paradosso è stato determinato dalla crisi economica e dalla crescente inflazione che ha reso più difficile la vita nelle grandi città. Così se tanti hanno scelto la strada dell’emigrazione all’estero, altri sono tornati ai loro villaggi di origine portando a un ripopolamento dello Chouf. “Con la nostra attività – racconta ancora Panichi – collaborando con alcune cooperative agricole abbiamo promosso la coltivazione di prodotti da destinare al mercato interno e abbiamo recuperato 50 ettari di terrazzamenti abbandonati, andando ben oltre l’obiettivo di 30 ettari che ci eravamo dati”.
Pace e sviluppo in Libano
Rabbia e rassegnazione appaiono oggi due dei sentimenti prevalenti tra una popolazione che risente della crisi economica ma anche della grave crisi politica che sta bloccando il Paese. “Si ha come l’impressione che non si veda la luce alla fine del tunnel” racconta Giulia Giavazzi, Programme coordinator Middle East del Celim di Milano. “Ma vediamo anche la speranza concreta che nasce dai progetti allo sviluppo e che nel nostro caso portano a un simbolo di pace, come è l’olivo”. Il Celim sta infatti per chiudere un progetto di Aics ad Hasbaya, nel sud del Libano, dove l’enfasi è stata posta sulla coltura dell’olivo. Una coltura tradizionale ma che risentiva di alcuni limiti: scarsa qualità dell’olio prodotto, poca competitività sui mercati, insostenibilità ambientale. “Abbiamo lavorato su tutti questi fronti – conclude Giavazzi – migliorando le condizioni di lavoro di contadini e modernizzando le attrezzature e le tecniche. Abbiamo acceso insieme a loro una luce, in attesa che si arrivi davvero alla fine del tunnel”.
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