L’uomo del cielo ritrovato sulla cattedrale di Betlemme

L’uomo del cielo ritrovato sulla cattedrale di Betlemme

Il pratese Giammarco Piacenti a capo dell’azienda che ha seguito il restauro della basilica della Natività

15 Dicembre 2022, di Fulvio Paloscia

Il mondo intero si chiede cosa ha fatto sopravvivere la Basilica della Natività di Betlemme. Eretta su una faglia tettonica, ha resistito a 15 terremoti. Per lungo tempo è andata in disfacimento, i temporali l’hanno allagata, ha resistito ai conflitti mediorientali e nell’assedio del 2002, ha dato rifugio a militanti palestinesi a cui i soldati israeliani stavano dando la caccia. Eppure è sempre lì, ben salda alla sua storia. C’è qualcosa, in quel luogo, che ha a che fare l’infinito. Ma non lo sa definire neanche Giammarco Piacenti, il restauratore pratese a capo dell’azienda (Piacenti spa, coinvolta nei restauri lapidei del Duomo di Milano, dell’acropoli e della necropoli di Populonia e Baratti, nei lavori dei Grandi Uffizi) che dal 2013 sta riportando la Basilica alla sua bellezza. Il mistero, in fondo, è il cuore dell’edificio e neanche la mostra sul lungo processo di recupero, Bethlehem Reborn. Palestina, le meraviglie della Natività ci tiene a svelarlo. Voluta dalla Fondazione Giovanni Paolo II, fino al 18 dicembre all’Istituto degli Innocenti riporta il Natale al suo senso profondo, interiore, mentre intorno trionfa il chiasso delle compere.

Un’altra festa è all’origine dell’impresa titanica. Selezionato dalla commissione di esperti che erano stati nominati dall’Autorità nazionale palestinese, Piacenti ha firmato il contratto il 15 agosto, “piene ferie. Qualcuno mi disse: l’architetto che realizzò la basilica non contentò l’imperatore Giustiniano. Fu decapitato. Quindi, ti conviene fare un bel lavoro” racconta ridendo. Certo, scherzavano. Però in quel momento, davanti ai suoi occhi è passata la storia dell’azienda messa su dal bisnonno in un paesino sull’Appennino, Cavarzano di Vernio, e la sfida di occuparsi di restauro non a Firenze ma nell’industriale Prato “che, grazie alla sua identità tessile, non solo ci ha fornito gli spazi ideali per il nostro opificio, in una fabbrica dismessa, ma ha favorito l’accessibilità a sostanze chimiche necessarie per il nostro lavoro, grazie ai canali privilegiati aperti proprio dall’industria dei tessuti”.

Il restauratore è colui che s’inchina davanti all’opera di altri e si impegna perché quell’opera torni a vivere una nuova vita. Proprio come il visitatore della Basilica si piega al significato del luogo facendo ingresso dalla Porta dell’Umiltà, così bassa da costringere appunto all’inchino. Solo che a Betlemme si trattava di mettere mano ad un monumento le cui pietre sono state cementate con la calce della spiritualità: “lo visitano cristiani ma anche musulmani – racconta Piacenti – e se si considera che il Cristo era ebreo si capisce quando la Basilica contenga un messaggio relativo a tutte le religioni abramitiche. Al suo interno operano la comunità ortodossa, quella armena e quella francescana, che si sono spartite alcune zone e portano avanti ognuna i propri riti. Sono felicissime del restauro, ma non lo danno troppo a vedere”; dal punto di vista storico “vi sono ancora opere che fanno parte della sua prima edificazione. Un privilegio rispetto, ad esempio, al Santo Sepolcro i cui elementi sono molto più recenti, risalgono al 1500”. Così, lavorare a Betlemme “ha significato essere nel mirino della stampa mondiale, mostrarsi pronto a 64 visite di stato compreso il presidente Mattarella e il Papa, per ben due volte. Però è impossibile dire a parole cosa significa toccare i mosaici commissionati dai grandi imperatori che studi distrattamente a scuola, come Costantino. Ma soprattutto sentire i grazie dei 400 specialisti italiani che si sono avvicendati ai lavori: in questo mestiere, la bellezza di mettere mano alla storia, la sensazione che quelle architravi con vecchie di 1500 anni e i mosaici antichi di 9 secoli abbiano bisogno di te, viene prima di qualunque stipendio”.

Piacenti paragona la sua avventura alla folgorazione di San Paolo sulla via di Damasco. Certo, ci sono stati momenti di difficoltà “legati alla contingenza e non ai lavori, seppure sia stato difficile spostare materiale e tecnologie fino a là. La Palestina è un territorio complesso, irrisolto, sempre in pena per il conflitto con Israele e luogo dai mille nomi: Cisgiordania, “west bank”, “territori occupati”, “territori contesi”. Quando abbiamo iniziato a lavorare, neanche era uno stato riconosciuto dall’Italia. Dunque, il ricordo nero sono i bombardamenti, quando i missili israeliani che non raggiungevano Gerusalemme cadevano in prossimità di Betlemme, una cittadina tranquilla, votata alla Natività, fulcro del suo turismo. Uno è precipitato anche a 300 metri dalla Basilica”. Però, che bellezza osservare l’emozione dei visitatori: “Un giorno sull’impalcatura che circonda il mosaico sull’incredulità di San Tommaso, sono salite alcune donne ucraine. Abiti dimessi, umili, sono scoppiate a piangere per l’emozione”. In quel momento, Piacenti si è reso conto che il senso del suo lavoro è tutto nel titolo del documentario realizzato da Tommaso Santi sul recupero della Basilica: Restaurare il cielo.

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