Luca Buccheri (Pratovecchio)
La storia di Abramo, chiamato «amico di Dio» e «padre della fede» delle tre grandi religioni monoteistiche che si affacciano sul Mediterraneo, ebraismo, cristianesimo e islam, inizia quando decide di lasciare la casa paterna (Gen. 12,1-4) per compiere quel viaggio interiore e geografico verso l’ignoto che farà di lui l’arameo errante della fede. Un viaggio caratterizzato dal distacco, dalla rinuncia alla pretesa di dominare gli eventi, di conoscere e dirigere il proprio destino, di conservare il dominio sulle persone.
Così tutta la sua storia è segnata dal «lasciare», dal partire, dal distacco verso tutto ciò che poteva rappresentare il compimento del suo sogno: così è quando decide di lasciar partire suo nipote Lot (Genesi 13-14), che avrebbe potuto essere il «figlio» e l’erede tanto desiderato; così pure quando accetta di affidarsi alla schiava Agar per poter avere la discendenza promessa e quando poi lascia suo figlio Ismaele andare via con sua madre (Genesi 21); e soprattutto quando acconsente a restituire quel figlio tanto atteso e voluto, Isacco, a quel Dio che così sorprendentemente glielo aveva donato (Genesi 22); infine, quando accetta di possedere un pezzetto di quella terra promessa solo nel momento in cui essa servirà per seppellire l’amata moglie Sara (cap. 23). Da vero pastore nomade, impara a non sentirsi padrone delle cose e ad affidarsi a quella voce interiore che lo chiama a lasciare, per trovare una più grande benedizione.
Abram, il cui nome significa «mio padre è grande», diventerà Abraham che vuol dire «padre di molti popoli» (Gen. 17,5): nell’atto di fede del patriarca Abramo e nella sua discendenza «si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen. 12,3). La fede abramitica diventa così faro e riferimento per il cammino dei popoli in questo distacco dalle proprie pretese di assolutezza e dominio, volto verso l’accettazione del limite, della diversità, dell’alterità. Una fede «aperta» che fonda il monoteismo ebraico, cristiano e islamico sulle solide basi dell’accoglienza e del rispetto dell’altro, dello straniero, dell’ospite.
1. Una storia di fede
Dopo tanti anni dalla promessa di una discendenza («alla tua discendenza io darò questo paese», Gen. 15,18) i due coniugi erano diventati oramai vecchi ed «era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne» (18,11). Insomma la promessa di una posterità come le «stelle del cielo» (cf. Gen. 15,5) si era rivelata fino ad allora infondata. È il momento della crisi, quando si rendono conto che il tempo sta trascorrendo invano e non vi sono tracce della realizzazione di quella promessa.
Dio allora interviene con una parola e un segno: di fronte alla paura di essere soli, abbandonati, sconfitti e condannati dalla propria sterilità, quando il sogno di una discendenza viene offuscato e infranto ogni giorno di più dall’inesorabile trascorrere dei giorni, Dio dice: «Non temere» (Gen. 15,1). Il segno è quello di un cielo stellato, l’immenso cielo stellato del Neghev che è capace di evocare la potenza creatrice di Dio e la sua rinnovata promessa di una discendenza. L’amèn di Abramo – il testo ebraico usa il verbo aman per indicare che «credette al Signore» (Gen. 15,6) – è come un «poggiarsi» sul Signore, confidando nella sua fedeltà, malgrado tutto dica il contrario. Nel momento della paura, del dubbio, del senso di fallimento, della crisi, Abramo rinnova la sua fiducia. La paura è vinta quando l’uomo si fida, e si fida più della promessa che della sua realizzazione. Per questa grande fede e «speranza contro ogni speranza» (Rm. 4,18), Abramo è diventato il simbolo dell’uomo di fede. Di ogni fede.
Ma la fede dell’uomo è ancora attraversata dalla lotta, dalla fragilità, dal dubbio. Forse bisogna «aiutare Dio» in questa realizzazione della promessa. All’inizio del capitolo 16 della Genesi, Sara e Abramo, con indubbio realismo, decidono di ricorrere alla schiava egiziana Agar, dalla quale Abramo avrà un figlio (Ismaele)1. Ma Dio non ha dimenticato le sue promesse e visita la vita dell’uomo rendendo possibile ciò che umanamente è impossibile! La visita di Dio diventa portatrice di fecondità anche laddove il ventre è sterile e la carne «avvizzita».
2. L’ospite inatteso
L’episodio su cui intendiamo soffermarci (Gen. 18,1-16), appartenente alla tradizione jahvista (J), narra dell’apparizione alle querce di Mamre di tre misteriosi «uomini» che si affacciano alla tenda di Abramo nell’ora più calda del giorno. Nella vita beduina del deserto (siamo nel deserto di Giuda, nei pressi di Hebron) quando un ospite è di passaggio nell’accampamento il dovere di ospitalità è sacro. Ma la visita di questi misteriosi personaggi, che il narratore ci presenta a volte al plurale (vv. 2.4-5.8-9), altre al singolare (vv. 1.3.10.13-15)2, è legata alla visita di Dio stesso che annuncia ad Abramo e a sua moglie la nascita di un figlio.
L’aspetto che qui vogliamo particolarmente sottolineare è quello dell’ospitalità. Abramo e Sara (con Ismaele e Agar) sono come una famiglia che allarga lo spazio della propria tenda all’ospite inatteso, con i suoi bisogni e le sue fatiche. Non sanno che si tratta del «Signore», eppure li trattano da “signore” (al singolare! v. 3), prostrandosi ai loro piedi e pregandoli di fermarsi, di lavarsi e ristorarsi all’ombra dell’albero, poi preparando loro focacce e vitello. Non è dunque un caso che i Padri della chiesa abbiano visto in questa scena un’anticipazione della famiglia trinitaria, che visita e ricompensa l’accoglienza e l’ospitalità del patriarca Abramo con il dono più grande: quello di un figlio tutto loro! A questi tre misteriosi personaggi si è infatti ispirato Andrei Rublev nel dipingere la famosa icona russa della Trinità, anche se il testo non autorizza una lettura trinitaria e neppure a vedervi Dio accompagnato dagli angeli.
Ma vediamo più da vicino questa stupenda scena. Abramo è seduto all’ingresso della tenda; sembra in attesa, un’attesa che dura oramai da tanto tempo. In attesa che qualcosa succeda nella sua vita, spesa fidandosi di una Voce interiore che lo ha sospinto a uscire dal suo paese per andare verso «il paese che io ti indicherò» (Gen. 12,1). In attesa che qualcuno passi a realizzare quel sogno che Dio stesso gli aveva messo nel cuore, ma che ora – a 100 anni – sembra allontanarsi sempre più. Eppure resta una tensione, una ricerca, un’inquietudine che si materializza nel momento in cui tre stranieri, tre sconosciuti passano lì davanti e si presentano «presso di lui». Sembra di vederlo questo «vecchietto» agitarsi tutto per cercare di mettere a loro agio gli ospiti: dà loro l’acqua per lavare i piedi affaticati e impolverati dal cammino desertico; li invita discretamente ad accomodarsi al fresco delle querce che proteggono l’accampamento, per rinfrancarsi un po’ e poter proseguire poi il loro cammino; fa preparare alla moglie e ai servi delle focacce e un vitello scelto accuratamente da lui stesso, da presentare in un bagno di latte; poi, in piedi presso di loro, li assiste nel pasto.
3. Gesti di cura e di premura
Proviamo a cogliere il senso e il contesto di questi gesti semplici e significativi di accoglienza, in particolare del lavare i piedi e dell’offrire ombra.
Lavare i piedi non ha lo stesso significato che potrebbe avere oggi. A quel tempo non esistevano scarpe chiuse; le calzature normali erano i sandali, in cui i piedi erano all’aperto. Si camminava assai, pochi avevano una cavalcatura. Viaggi, pellegrinaggi, spostamenti avvenivano a piedi: da qui l’importanza della loro salute. Nel cammino si impolveravano, si ferivano e a ogni sosta andavano curati e ristorati. Lavarli, ungerli, trattarli come il prezioso cuoio dei sandali, era il gesto di più squisita e gradita ospitalità. Diversamente da oggi, la gente dell’antichità non aveva varie paia di calzature, e chi possedeva un paio di sandali li teneva in gran conto. La prima mossa d’ospitalità, per chi cammina sulle strade calde e polverose del Medio Oriente, attraversando il deserto duro e sassoso della Palestina, è offrire acqua e ristoro per i piedi.
Ma anche un altro gesto è fortemente significativo, pensando al clima torrido di quelle regioni. Abramo e Sara offrono ai tre misteriosi ospiti riparo e ombra sotto una quercia (Gen. 18,4). Offrire l’ombra in pieno deserto richiama subito la dimensione dell’oasi, segno della presenza e della protezione di Dio dalle micidiali insolazioni del clima subtropicale. Innumerevoli sono i riferimenti biblici a proposito. La schiava Agar, fuggita incinta nel deserto per morire, trova insperatamente un’oasi con una sorgente che la rinfranca e un angelo che la guarda dentro, chiamandola per nome e ridonandole fiducia (cf. Genesi 16). Nell’esodo Dio aveva concesso al popolo di Israele una colonna di fuoco di notte, per illuminare il cammino, ed una nube di giorno, per indicare il cammino e proteggere dai raggi infuocati del sole (cf. Es. 14,21). Il profeta Isaia afferma: «Una tenda fornirà ombra contro il caldo di giorno e rifugio e riparo contro i temporali e le piogge» (Is. 4,6); il profeta Baruc vede l’ombra come un dono protettivo che Dio farà al suo popolo: «Anche le selve e ogni albero odoroso faranno ombra ad Israele per comando di Dio» (Bar. 5,8); il profeta Osea vede il rischio dell’idolatria nel rifugiarsi all’ombra di grandi alberi per compiere sacrifici ad altri dèi (cf. Os. 4,13), ma assicura poi che gli israeliti «torneranno a sedersi alla mia ombra» abbandonando l’idolatria (Os. 14,8). Singolare la storia del profeta Giona: dopo l’ennesimo disappunto nei confronti di un Dio reputato troppo buono, il riottoso uomo di Dio decide di uscire sdegnosamente dalla città di Ninive e rifugiarsi all’ombra dentro una capanna; ma è Dio che vuole regalargli un conforto facendogli crescere una piantina di ricino sulla testa, per fargli ombra (cf. Gn. 4,5-6). Anche nei salmi l’orante esprime il desiderio di poter dimorare «all’ombra dell’Onnipotente» (Sal. 91,1), sotto le sue ali: «Vorrei abitare nella tua tenda per sempre, vorrei rifugiarmi all’ombra delle tue ali» (Sal. 61,5)
Offrire l’ombra significa dunque offrire protezione e conforto, per aiutare chi è stanco, accaldato e disorientato a riprendere il cammino della vita. È un gesto di premura e custodia talmente significativo che Dio stesso se ne fa garante e addirittura si identifica con la stessa ombra: «Il Signore è il tuo custode, il Signore è come ombra che ti copre, e sta alla tua destra. Di giorno non ti colpirà il sole, né la luna di notte. Il Signore ti proteggerà da ogni male, egli proteggerà la tua vita» (Sal. 121,5-7).
La cosa particolare è che qui Abramo e Sara offrono l’ombra a Dio stesso, senza sapere che è lui. Come se Dio si nascondesse in un povero viandante che ha bisogno di tutto per permettere a noi di essere Dio, prendendoci cura dell’altro come farebbe lui con noi. Viene in mente Gesù, anche lui affaticato e assetato al pozzo di Sicar a mezzogiorno, che domanda acqua da bere alla sconosciuta donna di Samaria, per poi solo alla fine essere riconosciuto come il Messia (cf. Gv. 4); come pure nella scena dei due discepoli di Emmaus, quando essi riconoscono chi è il misterioso pellegrino che si è fatto loro compagno di strada nel gesto dello spezzare il pane (cf. Lc 24). Vengono in mente le parabole di Gesù, in particolare quella sul giudizio finale di Matteo (cap. 25), in cui Gesù si identifica nel povero affamato, assetato, denudato, carcerato, ammalato: «L’avete fatto a me». È importante accogliere senza sapere chi accogli, senza avere garanzie sulla buonafede degli ospiti.
4. L’accoglienza feconda
Il seguito sembra quasi la risposta di Dio a tale generosità e accoglienza, malgrado il «riso»3 di Sara che sembra non dar credito alle parole dell’illustre ospite. Quando tu accogli lo Sconosciuto che bussa alla tua porta e allarghi la tua tenda, entra con lui anche un carico di benedizione e di vita: «Tornerò da te fra un anno a questa data – dicono i tre misteriosi personaggi ad Abramo – e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gen. 18,10). Quando tu rimani aperto e accogli la vita, la vita si fa benedizione e fecondità per te. La tenda si allarga, si gonfia del vento della novità e si fa vela, spingendoti oltre.
Come a dire che se ti fidi e accogli lo straniero, se per te l’altro è «signore» da servire e proteggere sotto la tua ombra, se per lui sei disposto ad «allargare lo spazio della tua tenda» (cf. Is. 54,2) e ad ammazzare «il vitello tenero e buono» (Gen. 18,7) puoi accogliere Dio stesso senza accorgertene e con lui lasciar entrare nella tua casa la sua benedizione di vita. Dio è dove meno te lo aspetti e dove lo si lascia entrare.
Ecco una storiella ebraica ad hoc: «Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”». Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma – come direbbe Martin Buber – lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova: «C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova»4. Perché Dio è il compimento dell’esistenza.
Si può allora concludere che Dio si presenta a te non con i tratti distintivi di Dio, ma nei panni dell’uomo stanco e accaldato, mendicante di ristoro. Meglio non fidarsi delle apparenze. L’accoglienza esercitata verso tutti è accogliere inconsapevolmente Dio, il quale non vuole essere accolto perché è Dio, ma in quanto nascosto nell’umanità e nella debolezza; quando l’uomo accoglie l’altro uomo in quanto tale, infatti, accoglie Dio stesso. Accogliere l’altro gratuitamente è gesto di fecondità e di vita perché è accogliere il Dio della vita.
5. Attualizzazione
Oggi mi pare che facciamo fatica a coltivare dei sogni e a portarli avanti con perseveranza. Ad ogni minima difficoltà ci scoraggiamo e corriamo il rischio di rassegnarci e buttare via quel desiderio profondo che muove i nostri passi. Diventiamo così distratti e passivi, lasciando che la vita passi senza lasciarci interpellare dai piccoli segni che si affacciano alla nostra porta. Abramo, quando viene visitato dai tre uomini nella sua tenda alle querce di Mamre, è vecchio, ma accoglie i tre sconosciuti perché il suo cuore non è spento, ma attende. Attende perché il suo cuore sogna, desidera, ricerca. Da anni Dio ha promesso a lui e sua moglie Sara di avere un figlio, una discendenza… ma ancora nulla. Eppure continua a sperare, contro ogni apparenza, contro la vecchiaia e la sterilità.
L’attesa produce attenzione alla vita, a ciò che capita, a ciò che si sta muovendo davanti a te. L’attenzione porta a domandarsi, a cercare, ad aprirsi al nuovo, agli altri, alla vita che passa e bussa alla tua porta. Perché quando sei attento alla vita, quando coltivi una speranza e un desiderio profondo, diventi capace di accogliere anche i più piccoli germi di novità che si affacciano senza invadere, discretamente e delicatamente, senza forzare l’ingresso.
La tenda di Abramo e Sara è il simbolo di un’apertura gratuita, di un atteggiamento di accoglienza che non ha pregiudiziali, di una mentalità che mette al centro la sacralità della persona, prima ancora di cercare i prerequisiti morali, religiosi, culturali per poter accogliere. Queste pagine ci invitano ad un’accoglienza non selettiva, in base ai nostri criteri di reciprocità, ma larga e fiduciosa. È vero: accogliendo tutti si possono avere brutte sorprese, ci possono essere persone che tradiscono la nostra fiducia; ma ci possono essere anche degli angeli, tra di loro. La lettera agli Ebrei, riferendosi a questo passo della Genesi commenterà: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb. 13,2).
Note
1 L’uso da parte della moglie sterile di presentare al marito la propria schiava per avere un figlio, che le viene poi attribuito, è un fenomeno diffuso tra le popolazioni seminomadi della Mesopotamia del XIX sec. a.C., come risulta dagli archivi della città di Mari.
2 Si passa dal numero tre al numero uno per poi, nel capitolo successivo, passare al due (cf. Gen 19). Un Midrash ebraico spiega il motivo di questo passaggio: gli angeli diventano due, perché uno è per la distruzione di Sodoma, l’altro per la protezione di Lot (cf. Midrash Tanhuma, ed. Buber, Vilna 1899, commentario Shemot XIX).
3 Non a caso il figlio si chiamerà Isacco, che vuol dire «il sorriso Dio».
4 M. Buber, Il cammino dell’uomo, Bose, 1990.
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