Franco Rizzi (Roma)
Sono giovani, meno giovani, studenti, disoccupati, professionisti, donne di una certa età e fanciulle, gridano, alzano le dita in segno di vittoria, muoiono sotto il piombo della polizia: si stanno ribellando perché è giusto, ribellarsi ad un potere che per lunghi decenni ha mentito, ha pensato alla propria riproduzione. Governi composti da vecchie cariatidi diventati le sentinelle e i guardiani degli interessi dell’Occidente. Si, è vero, mentre le oligarchie al potere si arricchivano, queste masse si impoverivano, ma non è stato solo questo il motivo scatenante della rivolta. A mio avviso è stata l’indignazione di essere trattati come se non fossero niente, l’indignazione di non essere considerati cittadini appartenenti ad uno stato, ad una comunità, senza autonomia e fisionomia che ha dato luogo alla rivolta. Un popolo arabo, musulmano in balia dei fantasmi degli integralisti che predicano la rigenerazione religiosa come momento della loro identità e di coloro che parlavano dei valori dell’Occidente come un modello da accettare per essere riconoscibili. Questo popolo si è ribellato e si sta ribellando alla ricerca della sua libertà e della sua dignità calpestata da sempre. Mohamed Bouazizi, che si è suicidato cospargendo il suo corpo di benzina e dandosi fuoco, lo ha fatto sulla piazza, dando al suo gesto una forte valenza politica. Non ha compiuto questo atto estremo nella solitudine della sua casa, ma sulla piazza di fronte al palazzo del governatorato, cittadino davanti ad altri cittadini. Da qui è partito tutto, anche se le analisi raffinate di molti politologi tendono ad esaltare ragioni materiali di queste rivolte, dimenticando che gli stessi protagonisti hanno sempre rifiutato di definire la loro rabbia come “una rivolta del pane”. Il muro della paura è caduto con un alto prezzo di vittime, anche questo era stato messo in conto, pur di non vivere più in una società, soffocati dal terrore che qualcuno ti sta ascoltando, terrorizzati dalla delazione, senza la libertà di esprimere il proprio pensiero.
Un popolo che ha detto basta e vuole riprendersi la propria identità di fronte ad un Occidente che gli ha negato di appartenere ad una grande civiltà. Arabi sinonimo di terroristi. Arabi sinonimo di arretrati. Arabi sinonimo di gente che passa il suo tempo a “pregare cinque volte al giorno col culo in aria” invece di andare a lavorare. Arabi che invadono le nostre città. Arabi che pensano di conquistare l’Occidente e di costringere le nostre donne ad indossare tutte il burqua. Potremmo continuare nell’elenco dei luoghi comuni. Il potere politico ha fondato su queste paure il suo successo. Che le migrazioni a cui assistiamo siano un problema nessuno lo può negare, ma può un Paese come il nostro, un grande Paese che ha affrontato l’arrivo di decine di migliaia di albanesi e poi di kossovari, chiedere con voce querula, aiuto all’UE e far finta di non essere capace di organizzare neanche la distribuzione degli aiuti più essenziali? Anche questo fa parte del gioco politico che specula sulla miseria di tanta gente per acquisire un misero consenso? Se lo chiedessimo a Zygmunt Bauman sicuramente risponderebbe di si. (Z. Barman, Vite che non possiamo permetterci, Bari, 2011).
E noi di fronte a tutto questo? Non abbiamo saputo dire nulla. Abbiamo accolto queste rivolte con poco entusiasmo, con meraviglia del tipo: anche loro, gli arabi sono capaci di tanto? Allo stesso tempo abbiamo perso tutte le nostre certezze con le quali analizzare, giudicare questo mondo, ci siamo trovati spiazzati, è vero, all’inizio abbiamo fatto ricorso alle vecchie storie con cui ci siamo sempre difesi, avanzando ad arte il sospetto che sarebbero stati gli integralisti islamici ad approfittare di queste sollevazioni. Ben presto abbiamo archiviato questa ipotesi e debolmente abbiamo avanzato quella dell’infiltrazione tra coloro che emigrano prendendo approdo sulle nostre coste. Ma anche questa ipotesi ha avuto il fiato corto, per la semplice ragione che se gli estremisti islamici volevano trarre vantaggi da questa situazione era meglio rimanere in patria. Cosa ci rimaneva del nostro armamentario di analisi. Non certo la teoria dell’esportazione della democrazia. Ormai aveva fatto troppi danni per rimetterla in circolazione. Né era conveniente parlare dello scontro di civiltà perché nelle piazze arabe non venivano bruciate né le bandiere americane, né quelle israeliane.
Allora quali i criteri per analizzare tutto ciò? Silenzio, rotto timidamente da Daniel Pipes, quello che considera Geert Wilders, il politico europeo più lungimirante per essere il più accanito razzista e antimusulmano, il quale Pipes esprime la sua meraviglia dinanzi al fatto che dei giovani egiziani si siano messi a pulire la piazza Tarhir dopo le giornate di occupazione. Anche loro sono capaci di atti di civismo!
La guerra alla Libia poi è stata la rappresentazione scenica della nostra maldestrezza e divisione. Anche sul termine guerra avanziamo delle riserve e diciamo che si tratta dell’applicazione della risoluzione dell’ONU. Ma non possiamo non considerare ogni presa di posizione rispetto alla Libia, da quella francese a quella italiana, da quella della Germania a quella della Lega Araba: tutti badavano e rispondevano soprattutto alle future esigenze elettorali dei vari protagonisti. Anche l’attivismo di alcuni protagonisti e la prudenza di altri aveva a che fare con la posizione di un possibile vantaggio che gli Stati in questioni avrebbero potuto acquisire in un prossimo futuro verso il petrolio e il gas libico, dopo Gheddafi.
Qualsiasi siano i calcoli politici e gli interessi che l’Occidente vorrà garantirsi verso i paesi della riva sud del Mediterraneo vi è la certezza che bisognerà elaborare nuovi modi di pensare e di analizzare la realtà del mondo arabo e musulmano. Forse le scosse di assestamento che attraversano questi Paesi, dopo il terremoto coloniale, avranno la possibilità di assestarsi. I problemi non mancheranno, ma per quanto difficili, ormai nulla sarà come prima.
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