Documentazione Ecumenica
Benedetto XVI, Saluto al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I
Roma, 28 giugno 2008
Santità,
con profonda e sincera gioia saluto Lei e il distinto seguito che L’accompagna e mi è gradito farlo con le parole tratte dalla seconda Lettera di San Pietro: “A coloro che hanno ricevuto in sorte con noi la stessa preziosa fede per la giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo: grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro” (1,1-2). La celebrazione dei Santi Pietro e Paolo, Patroni della Chiesa di Roma, così come quella di Sant’Andrea, Patrono della Chiesa di Costantinopoli, ci offrono annualmente la possibilità di uno scambio di visite, che sono sempre occasioni importanti per fraterne conversazioni e comuni momenti di preghiera. Cresce così la conoscenza personale reciproca; si armonizzano le iniziative e aumenta la speranza, che tutti ci anima, di poter giungere presto alla piena unità, in obbedienza al mandato del Signore.
Quest’anno, qui a Roma, alla festa patronale si aggiunge la felice circostanza dell’inaugurazione dell’Anno Paolino, che ho voluto indire per commemorare il secondo millennio della nascita di San Paolo, con l’intento di promuovere una sempre più approfondita riflessione sull’eredità teologica e spirituale lasciata alla Chiesa dall’Apostolo delle genti, con la sua vasta e profonda opera di evangelizzazione. Ho appreso con piacere che anche Vostra Santità ha indetto un Anno Paolino. Questa felice coincidenza pone in evidenza le radici della nostra comune vocazione cristiana e la significativa sintonia, che stiamo vivendo, di sentimenti e di impegni pastorali. Per questo rendo grazie al Signore Gesù Cristo, che con la forza del suo Spirito guida i nostri passi verso l’unità.
San Paolo ci ricorda che la piena comunione tra tutti i cristiani trova il suo fondamento in “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4, 5). La fede comune, l’unico Battesimo per la remissione dei peccati e l’obbedienza all’unico Signore e Salvatore, possano pertanto quanto prima esprimersi appieno nella dimensione comunitaria ed ecclesiale. “Un solo corpo ed un solo Spirito”, afferma l’Apostolo delle genti, ed aggiunge: “come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati” (Ef 4,4). San Paolo ci indica inoltre una via sicura per mantenere l’unità e, nel caso della divisione, per ricomporla. Il Decreto sull’Ecumenismo del Concilio Vaticano II ha ripreso l’indicazione paolina e la ripropone nel contesto dell’impegno ecumenico, facendo riferimento alle parole dense e sempre attuali della Lettera agli Efesini: “Vi esorto dunque io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace” (4,1-3).
Ai cristiani di Corinto, in mezzo ai quali erano sorti dissensi, San Paolo non ha timore di indirizzare un forte richiamo perché siano unanimi nel parlare, scompaiano le divisioni tra loro e coltivino una perfetta unione di pensiero e di intenti (cfr1 Cor 1,10). Nel nostro mondo, in cui si va consolidando il fenomeno della globalizzazione ma continuano ciononostante a persistere divisioni e conflitti, l’uomo avverte un crescente bisogno di certezze e di pace. Allo stesso tempo, però, egli resta smarrito e quasi irretito da una certa cultura edonistica e relativistica, che pone in dubbio l’esistenza stessa della verità. Le indicazioni dell’Apostolo sono, al riguardo, quanto mai propizie per incoraggiare gli sforzi tesi alla ricerca della piena unità tra i cristiani, tanto necessaria per offrire agli uomini del terzo millennio una sempre più luminosa testimonianza di Cristo, Via, Verità e Vita. Solo in Cristo e nel suo Vangelo l’umanità può trovare risposta alle sue più intime attese.
Possa l’Anno Paolino, che questa sera inizierà solennemente, aiutare il popolo cristiano a rinnovare l’impegno ecumenico, e si intensifichino le iniziative comuni nel cammino verso la comunione fra tutti i discepoli di Cristo. Di questo cammino la vostra presenza qui, oggi, è certamente un segno incoraggiante. Per questo esprimo ancora una volta a tutti voi la mia gioia, mentre insieme innalziamo al Signore la nostra grata preghiera.
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Benedetto XVI, Omelia per la celebrazione dei primi vespri della solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo in occasione dell’apertura dell’Anno Paolino
Roma, 28 giugno 2008
Santità e Delegati fraterni, Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Cari fratelli e sorelle,
siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque, duemila anni fa, a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio…» (At 22,3). Alla fine del suo cammino dirà di sé: «Sono stato fatto… maestro delle genti nella fede e nella verità» (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita. Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. «Maestro delle genti» – questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi.
Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi – oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale “Anno Paolino”: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, «la fede e la verità», in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo. In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’Apostolo, una speciale “Fiamma Paolina”, che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della Basilica. Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta “Porta Paolina”, attraverso la quale sono entrato nella Basilica accompagnato dal Patriarca di Costantinopoli, dal Cardinale Arciprete e da altre Autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’”Anno Paolino” assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. Saluto in primo luogo Sua Santità il Patriarca Bartolomeo I e i membri della Delegazione che lo accompagna, come pure il folto gruppo di laici che da varie parti del mondo sono venuti a Roma per vivere con Lui e con tutti noi questi momenti di preghiera e di riflessione. Saluto i Delegati Fraterni delle Chiese che hanno un vincolo particolare con l’apostolo Paolo – Gerusalemme, Antiochia, Cipro, Grecia – e che formano l’ambiente geografico della vita dell’Apostolo prima del suo arrivo a Roma. Saluto cordialmente i Fratelli delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente ed Occidente, insieme a tutti voi che avete voluto prendere parte a questo solenne inizio dell’”Anno” dedicato all’Apostolo delle Genti.
Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande Apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: Chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: Chi è Paolo? Che cosa dice a me? In questa ora, all’inizio dell’”Anno Paolino” che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.
Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue Lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: «Abbiamo avuto il coraggio … di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte … Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete» (1Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso. Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana – quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la «legge» della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: Dilige et quod vis fac (Tract. in 1Jo 7 ,7-8) – ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.
Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Alla domanda: «Chi sei, o Signore?» vien data la risposta: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. «Tu perseguiti me». Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti «la sua causa». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto «carne». Egli ha «carne e ossa» (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, «Capo e Corpo» formano un unico soggetto, dirà Agostino. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?», scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà: C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. «Perché mi perseguiti?» Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. «Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo», dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re. «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza – senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi.
In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.
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Bartolomeo I, Omelia nella solennità di Pietro e Paolo
Roma, 29 giugno 2008
Santità,
avendo ancora viva la gioia e l’emozione della personale e benedetta partecipazione di Vostra Santità alla Festa Patronale di Costantinopoli, nella memoria di San Andrea Apostolo, il Primo Chiamato, nel novembre del 2006, ci siamo mossi “con passo esultante”, dal Fanar della Nuova Roma, per venire presso di Voi, per partecipare alla Vostra gioia nella Festa Patronale della Antica Roma. E siamo giunti presso di Voi “con la pienezza della Benedizione del Vangelo di Cristo” (Rom. 15,29), restituendo l’onore e l’amore, festeggiando insieme col nostro prediletto Fratello nella terra d’Occidente, “i sicuri e ispirati araldi, i Corifei dei Discepoli del Signore”, i Santi Apostoli Pietro, fratello di Andrea, e Paolo – queste due immense, centrali colonne elevate verso il cielo, di tutta quanta la Chiesa, le quali – in questa storica città, – hanno dato anche l’ultima lampante confessione di Cristo e qui hanno reso la loro anima al Signore con il martirio, uno attraverso la croce e l’altro per mezzo della spada, santificandola.
Salutiamo quindi, con profondissimo e devoto amore, da parte della Santissima Chiesa di Costantinopoli e dei suoi figli sparsi nel mondo, la Vostra Santità, desiderato Fratello, augurando dal cuore “a quanti sono in Roma amati da Dio” (Rom. 1,7), di godere buona salute, pace, prosperità, e di progredire giorno e notte verso la salvezza “ferventi nello spirito, servendo il Signore, lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rom. 12, 11-12).
In entrambe le Chiese, Santità, onoriamo debitamente e veneriamo tanto colui che ha dato una confessione salvifica della Divinità di Cristo, Pietro, quanto il vaso di elezione, Paolo, il quale ha proclamato questa confessione e fede fino ai confini dell’universo, in mezzo alle più inimmaginabili difficoltà e pericoli. Festeggiamo la loro memoria, dall’anno di salvezza 258 in avanti, il 29 giugno, in Occidente e in Oriente, dove nei giorni che precedono, secondo la tradizione della Chiesa antica, in Oriente ci siamo preparati anche per mezzo del digiuno, osservato in loro onore. Per sottolineare maggiormente l’uguale loro valore, ma anche per il loro peso nella Chiesa e nella sua opera rigeneratrice e salvifica durante i secoli, l’Oriente li onora abitualmente anche attraverso un’icona comune, nella quale o tengono nelle loro sante mani un piccolo veliero, che simboleggia la Chiesa, o si abbracciano l’un l’altro e si scambiano il bacio in Cristo.
Proprio questo bacio siamo venuti a scambiare con Voi, Santità, sottolineando l’ardente desiderio in Cristo e l’amore, cose queste che ci toccano da vicino gli uni gli altri.
Il Dialogo teologico tra le nostre Chiese “in fede, verità e amore”, grazie all’aiuto divino, va avanti, al di là delle notevoli difficoltà che sussistono ed alle note problematiche. Desideriamo veramente e preghiamo assai per questo; che queste difficoltà siano superate e che i problemi vengano meno, il più velocemente possibile, per raggiungere l’oggetto del desiderio finale, a gloria di Dio.
Tale desiderio sappiamo bene essere anche il Vostro, come siamo anche certi che Vostra Santità non tralascerà nulla lavorando di persona, assieme ai suoi illustri collaboratori attraverso un perfetto appianamento della via, verso un positivo completamento a Dio piacente, dei lavori del Dialogo.
Santità, abbiamo proclamato l’anno 2008, “Anno dell’Apostolo Paolo”, così come anche Voi fate del giorno odierno fino all’anno prossimo, nel compimento dei duemila anni dalla nascita del Grande Apostolo. Nell’ambito delle relative manifestazioni per l’anniversario, in cui abbiamo pure venerato il preciso luogo del Suo Martirio, programmiamo tra le altre cose un sacro pellegrinaggio ad alcuni monumenti della attività evangelica dell’Apostolo in Oriente, come Efeso, Perge, ed altre città dell’Asia Minore, ma anche Rodi e Creta, alla località chiamata “Buoni Porti”. Siate sicuro, Santità, che in questo sacro tragitto, sarete presente anche Voi, camminando con noi in spirito, e che ciascun luogo eleveremo un’ardente preghiera per Voi e per i nostri fratelli della venerabile Chiesa Romano-Cattolica, rivolgendo una forte supplica e intercessione del divino Paolo al Signore per Voi.
E ora, venerando i patimenti e la croce di Pietro e abbracciando la catena e le stigmate di Paolo, onorando la confessione e il martirio e la venerata morte di entrambi per il Nome del Signore, che porta veramente alla Vita, glorifichiamo il Dio Tre volte Santo e lo supplichiamo, affinché per l’intercessione dei suoi Protocorifei Apostoli, doni a noi e a tutti i figli ovunque nel mondo della Chiesa Ortodossa e Romano-Cattolica, quaggiù “l’unione della fede e la comunione dello Spirito Santo” nel “legame della pace” e lassù, invece, la vita eterna e la grande misericordia. Amen.
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Benedetto XVI, Omelia nella solennità di Pietro e Paolo
Roma, 29 giugno 2008
Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Cari fratelli e sorelle!
Fin dai tempi più antichi la Chiesa di Roma celebra la solennità dei grandi Apostoli Pietro e Paolo come unica festa nello stesso giorno, il 29 giugno. Attraverso il loro martirio, essi sono diventati fratelli; insieme sono i fondatori della nuova Roma cristiana. Come tali li canta l’inno dei secondi Vespri che risale a Paolino di Aquileia (+ 806): «O Roma felix – Roma felice, adornata di porpora dal sangue prezioso di Principi tanto grandi. Tu superi ogni bellezza del mondo, non per merito tuo, ma per il merito dei santi che hai ucciso con la spada sanguinante». Il sangue dei martiri non invoca vendetta, ma riconcilia. Non si presenta come accusa, ma come «luce aurea», secondo le parole dell’inno dei primi Vespri: si presenta come forza dell’amore che supera l’odio e la violenza, fondando così una nuova città, una nuova comunità. Per il loro martirio, essi – Pietro e Paolo – fanno adesso parte di Roma: mediante il martirio anche Pietro è diventato cittadino romano per sempre. Mediante il martirio, mediante la loro fede e il loro amore, i due Apostoli indicano dove sta la vera speranza, e sono fondatori di un nuovo genere di città, che deve formarsi sempre di nuovo in mezzo alla vecchia città umana, la quale resta minacciata dalle forze contrarie del peccato e dell’egoismo degli uomini.
In virtù del loro martirio, Pietro e Paolo sono in reciproco rapporto per sempre. Un’immagine preferita dell’iconografia cristiana è l’abbraccio dei due Apostoli in cammino verso il martirio. Possiamo dire: il loro stesso martirio, nel più profondo, è la realizzazione di un abbraccio fraterno. Essi muoiono per l’unico Cristo e, nella testimonianza per la quale danno la vita, sono una cosa sola. Negli scritti del Nuovo Testamento possiamo, per così dire, seguire lo sviluppo del loro abbraccio, questo fare unità nella testimonianza e nella missione. Tutto inizia quando Paolo, tre anni dopo la sua conversione, va a Gerusalemme, «per consultare Cefa» (Gal 1,18). Quattordici anni dopo, egli sale di nuovo a Gerusalemme, per esporre «alle persone più ragguardevoli» il Vangelo che egli predica, per non trovarsi nel rischio «di correre o di aver corso invano» (Gal 2,1s). Alla fine di questo incontro, Giacomo, Cefa e Giovanni gli danno la destra, confermando così la comunione che li congiunge nell’unico Vangelo di Gesù Cristo (Gal 2,9). Un bel segno di questo interiore abbraccio in crescita, che si sviluppa nonostante la diversità dei temperamenti e dei compiti, lo trovo nel fatto che i collaboratori menzionati alla fine della Prima Lettera di san Pietro – Silvano e Marco – sono collaboratori altrettanto stretti di san Paolo. Nella comunanza dei collaboratori si rende visibile in modo molto concreto la comunione dell’unica Chiesa, l’abbraccio dei grandi Apostoli.
Almeno due volte Pietro e Paolo si sono incontrati a Gerusalemme; alla fine il percorso di ambedue sbocca a Roma. Perché? È questo forse qualcosa di più di un puro caso? Vi è contenuto forse un messaggio duraturo? Paolo arrivò a Roma come prigioniero, ma allo stesso tempo come cittadino romano che, dopo l’arresto in Gerusalemme, proprio in quanto tale aveva fatto ricorso all’imperatore, al cui tribunale fu portato. Ma in un senso ancora più profondo, Paolo è venuto volontariamente a Roma. Mediante la più importante delle sue Lettere si era già avvicinato interiormente a questa città: alla Chiesa in Roma aveva indirizzato lo scritto che più di ogni altro è la sintesi dell’intero suo annuncio e della sua fede. Nel saluto iniziale della Lettera dice che della fede dei cristiani di Roma parla tutto il mondo e che questa fede, quindi, è nota ovunque come esemplare (Rm 1,8). E scrive poi: «Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi, ma finora ne sono stato impedito» (1,13). Alla fine della Lettera riprende questo tema parlando ora del suo progetto di andare fino in Spagna. «Quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza» (15,24). «E so che, giungendo presso di voi, verrò con la pienezza della benedizione di Cristo» (15,29). Sono due cose che qui si rendono evidenti: Roma è per Paolo una tappa sulla via verso la Spagna, cioè – secondo il suo concetto del mondo – verso il lembo estremo della terra. Considera sua missione la realizzazione del compito ricevuto da Cristo di portare il Vangelo sino agli estremi confini del mondo. In questo percorso ci sta Roma. Mentre di solito Paolo va soltanto nei luoghi in cui il Vangelo non è ancora annunciato, Roma costituisce un’eccezione. Lì egli trova una Chiesa della cui fede parla il mondo. L’andare a Roma fa parte dell’universalità della sua missione come inviato a tutti i popoli. La via verso Roma, che già prima del suo viaggio esterno egli ha percorso interiormente con la sua Lettera, è parte integrante del suo compito di portare il Vangelo a tutte le genti – di fondare la Chiesa cattolica, universale. L’andare a Roma è per lui espressione della cattolicità della sua missione. Roma deve rendere visibile la fede a tutto il mondo, deve essere il luogo dell’incontro nell’unica fede.
Ma perché Pietro è andato a Roma? Su ciò il Nuovo Testamento non si pronuncia in modo diretto. Ci dà tuttavia qualche indicazione. Il Vangelo di san Marco, che possiamo considerare un riflesso della predicazione di san Pietro, è intimamente orientato verso il momento in cui il centurione romano, di fronte alla morte in croce di Gesù Cristo, dice: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Presso la Croce si svela il mistero di Gesù Cristo. Sotto la Croce nasce la Chiesa delle genti: il centurione del plotone romano di esecuzione riconosce in Cristo il Figlio di Dio. Gli Atti degli Apostoli descrivono come tappa decisiva per l’ingresso del Vangelo nel mondo dei pagani l’episodio di Cornelio, il centurione della coorte italica. Dietro un comando di Dio, egli manda qualcuno a prendere Pietro e questi, seguendo pure lui un ordine divino, va nella casa del centurione e predica. Mentre sta parlando, lo Spirito Santo scende sulla comunità domestica radunata e Pietro dice: «Forse che si può proibire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?» (At 10,47). Così, nel Concilio degli Apostoli, Pietro diventa l’intercessore per la Chiesa dei pagani i quali non hanno bisogno della Legge, perché Dio ha «purificato i loro cuori con la fede» (At 15,9). Certo, nella Lettera ai Galati Paolo dice che Dio ha dato a Pietro la forza per il ministero apostolico tra i circoncisi, a lui, Paolo, invece per il ministero tra i pagani (2,8). Ma questa assegnazione poteva essere in vigore soltanto finché Pietro rimaneva con i Dodici a Gerusalemme nella speranza che tutto Israele aderisse a Cristo. Di fronte all’ulteriore sviluppo, i Dodici riconobbero l’ora in cui anch’essi dovevano incamminarsi verso il mondo intero, per annunciargli il Vangelo. Pietro che, secondo l’ordine di Dio, per primo aveva aperto la porta ai pagani lascia ora la presidenza della Chiesa cristiano-giudaica a Giacomo il minore, per dedicarsi alla sua vera missione: al ministero per l’unità dell’unica Chiesa di Dio formata da giudei e pagani. Il desiderio di san Paolo di andare a Roma sottolinea – come abbiamo visto – tra le caratteristiche della Chiesa soprattutto la parola «catholica». Il cammino di san Pietro verso Roma, come rappresentante dei popoli del mondo, sta soprattutto sotto la parola «una»: il suo compito è di creare l’unità della catholica, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli. Ed è questa la missione permanente di Pietro: far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura o con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore. Grazie alla tecnica dappertutto uguale, grazie alla rete mondiale di informazioni, come anche grazie al collegamento di interessi comuni, esistono oggi nel mondo modi nuovi di unità, che però fanno esplodere anche nuovi contrasti e danno nuovo impeto a quelli vecchi. In mezzo a questa unità esterna, basata sulle cose materiali, abbiamo tanto più bisogno dell’unità interiore, che proviene dalla pace di Dio – unità di tutti coloro che mediante Gesù Cristo sono diventati fratelli e sorelle. È questa la missione permanente di Pietro e anche il compito particolare affidato alla Chiesa di Roma.
Cari Confratelli nell’Episcopato! Vorrei ora rivolgermi a voi che siete venuti a Roma per ricevere il pallio come simbolo della vostra dignità e della vostra responsabilità di Arcivescovi nella Chiesa di Gesù Cristo. Il pallio è stato tessuto con la lana di pecore, che il Vescovo di Roma benedice ogni anno nella festa della Cattedra di Pietro, mettendole con ciò, per così dire, da parte affinché diventino un simbolo per il gregge di Cristo, che voi presiedete. Quando prendiamo il pallio sulle spalle, quel gesto ci ricorda il Pastore che prende sulle spalle la pecorella smarrita, che da sola non trova più la via verso casa, e la riporta all’ovile. I Padri della Chiesa hanno visto in questa pecorella l’immagine di tutta l’umanità, dell’intera natura umana, che si è persa e non trova più la via verso casa. Il Pastore che la riporta a casa può essere soltanto il Logos, la Parola eterna di Dio stesso. Nell’incarnazione Egli ha preso tutti noi – la pecorella «uomo» – sulle sue spalle. Egli, la Parola eterna, il vero Pastore dell’umanità, ci porta; nella sua umanità porta ciascuno di noi sulle sue spalle. Sulla via della Croce ci ha portato a casa, ci porta a casa. Ma Egli vuole avere anche degli uomini che «portino» insieme con Lui. Essere Pastore nella Chiesa di Cristo significa partecipare a questo compito, del quale il pallio fa memoria. Quando lo indossiamo, Egli ci chiede: «Porti, insieme con me, anche tu coloro che mi appartengono? Li porti verso di me, verso Gesù Cristo?» E allora ci viene in mente il racconto dell’invio di Pietro da parte del Risorto. Il Cristo risorto collega l’ordine: «Pasci le mie pecorelle» inscindibilmente con la domanda: «Mi ami, mi ami tu più di costoro?». Ogni volta che indossiamo il pallio del Pastore del gregge di Cristo dovremmo sentire questa domanda: «Mi ami tu?» e dovremmo lasciarci interrogare circa il di più d’amore che Egli si aspetta dal Pastore.
Così il pallio diventa simbolo del nostro amore per il Pastore Cristo e del nostro amare insieme con Lui – diventa simbolo della chiamata ad amare gli uomini come Lui, insieme con Lui: quelli che sono in ricerca, che hanno delle domande, quelli che sono sicuri di sé e gli umili, i semplici e i grandi; diventa simbolo della chiamata ad amare tutti loro con la forza di Cristo e in vista di Cristo, affinché possano trovare Lui e in Lui se stessi. Ma il pallio, che ricevete «dalla» tomba di san Pietro, ha ancora un secondo significato, inscindibilmente connesso col primo. Per comprenderlo può esserci di aiuto una parola della Prima Lettera di san Pietro. Nella sua esortazione ai presbiteri di pascere il gregge in modo giusto, egli – san Pietro – qualifica se stesso synpresbýteros – con-presbitero (5,1). Questa formula contiene implicitamente un’affermazione del principio della successione apostolica: i Pastori che si succedono sono Pastori come lui, lo sono insieme con lui, appartengono al comune ministero dei Pastori della Chiesa di Gesù Cristo, un ministero che continua in loro. Ma questo “con” ha ancora due altri significati. Esprime anche la realtà che indichiamo oggi con la parola «collegialità» dei Vescovi. Tutti noi siamo con-presbiteri. Nessuno è Pastore da solo. Stiamo nella successione degli Apostoli solo grazie all’essere nella comunione del collegio, nel quale trova la sua continuazione il collegio degli Apostoli. La comunione, il “noi” dei Pastori fa parte dell’essere Pastori, perché il gregge è uno solo, l’unica Chiesa di Gesù Cristo. E infine, questo “con” rimanda anche alla comunione con Pietro e col suo successore come garanzia dell’unità. Così il pallio ci parla della cattolicità della Chiesa, della comunione universale di Pastore e gregge. E ci rimanda all’apostolicità: alla comunione con la fede degli Apostoli, sulla quale è fondata la Chiesa. Ci parla della ecclesia una, catholica, apostolica e naturalmente, legandoci a Cristo, ci parla proprio anche del fatto che la Chiesa è sancta e che il nostro operare è un servizio alla sua santità.
Ciò mi fa ritornare, infine, ancora a san Paolo e alla sua missione. Egli ha espresso l’essenziale della sua missione, come pure la ragione più profonda del suo desiderio di andare a Roma, nel capitolo 15 della Lettera ai Romani in una frase straordinariamente bella. Egli si sa chiamato «a servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti, amministrando da sacerdote il Vangelo di Dio, perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,6). Solo in questo versetto Paolo usa la parola «hierourgein» – amministrare da sacerdote – insieme con «leitourgós» – liturgo: egli parla della liturgia cosmica, in cui il mondo stesso degli uomini deve diventare adorazione di Dio, oblazione nello Spirito Santo. Quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo. È questo l’obiettivo ultimo della missione apostolica di san Paolo e della nostra missione. A tale ministero il Signore ci chiama. Preghiamo in questa ora, affinché Egli ci aiuti a svolgerlo in modo giusto, a diventare veri liturghi di Gesù Cristo. Amen.
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Benedetto XVI, Lettera a mons. Vincenzo Paglia, presidente della Federazione Biblica Cattolica
Roma, 12 giugno 2008
«State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace» (Ef 6, 14-15). Con queste parole dell’apostolo Paolo, sono lieto di salutare i delegati e tutti i partecipanti alla settima Assemblea Generale della Federazione Biblica Cattolica, che si celebra a Dar-es-Salaam dal 24 giugno al 3 luglio 2008, dedicata al tema: La Parola di Dio, fonte di riconciliazione, di giustizia e di pace. L’Assemblea Generale è sempre un’opportunità privilegiata per i membri della Federazione Biblica Cattolica per ascoltare insieme la Parola di Dio e rinnovare il loro servizio alla Chiesa, chiamata a proclamare il Vangelo della pace.
Il fatto che il vostro incontro si tenga a Dar-es-Salaam è un importante gesto di solidarietà con la Chiesa in Africa, ancor più in vista del Sinodo speciale per l’Africa del prossimo anno. È «dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo» (Gaudium et spes, n. 4). Il messaggio che portate a Dar-es-Salaam è chiaramente un messaggio di amore per la Bibbia e di amore per l’Africa. Il tema della vostra Assemblea generale attira l’attenzione su come la Parola di Dio può ripristinare l’umanità nella riconciliazione, nella giustizia e nella pace. È questa la parola di vita che la Chiesa deve offrire a un mondo in frantumi. «Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5, 20). Possa il continente africano stabilire il contesto per la lectio divina che vi assisterà in questi giorni e possano i vostri sforzi aiutare la Chiesa in Africa a «proseguire la sua missione evangelizzatrice, per attrarre i popoli del continente al Signore, insegnando loro ad osservare quanto Egli ha comandato (cfr Mt 28, 20)» (Ecclesia in Africa, n. 6)!
Il cristianesimo è la religione della Parola di Dio, «non una parola scritta e muta, bensì incarnata e vivente» (cfr San Bernardo, S. Missus est 4, 11 PL 183, 86). Solo Cristo, Verbo eterno del Dio vivente, attraverso lo Spirito Santo può aprire la nostra mente per comprendere le Scritture (cfr Lc 24, 15; Catechismo, n. 108). Vi incoraggio cordialmente non soltanto a continuare a far conoscere la profonda rilevanza delle Scritture per l’esperienza contemporanea dei cattolici e specialmente delle generazioni più giovani, ma anche a guidarli a interpretarle dalla prospettiva centrale di Cristo e del suo mistero pasquale.
La comunità dei credenti può essere il lievito della riconciliazione, ma solo se «resta docile allo Spirito e rende testimonianza al Vangelo, solo se porta la Croce come e con Gesù» (Omelia nella solennità di Pentecoste, 11 maggio 2008). A questo riguardo, desidero fare mia una riflessione del servo di Dio Papa Giovanni Paolo ii, il quale ha osservato: «Come, infatti, annunciare il Vangelo della riconciliazione, senza al contempo impegnarsi ad operare per la riconciliazione dei cristiani?» (Ut unum sint, n. 98). Lasciate che questa osservazione trovi la sua strada anche nelle vostre attività in questi giorni. Possano i vostri cuori essere sempre guidati dallo Spirito Santo nella forza unificatrice della Parola di Dio!
Tutti i cristiani sono chiamati a imitare l’apertura di Maria, che «accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò la vita al mondo» (Lumen gentium, n. 53). Possano i popoli dell’Africa ricevere questo Verbo come la sorgente di riconciliazione e di giustizia dispensatrice di vita, e specialmente della pace autentica che viene solo dal Signore Risorto. Affidando alla stessa Vergine Maria, Sede della Sapienza, tutti coloro che sono riuniti per questa Assemblea Generale, imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.
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mons. Vincenzo Paglia, Bibbia ed ecumenismo
Roma, 14 ottobre 2008
Parola di Dio e ecumenismo
Un nodo importante che emerge dall’inchiesta riguarda il rapporto che i fedeli delle diverse tradizioni cristiane (cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti) hanno con la Bibbia. L ’inchiesta, volutamente, ha incluso paesi che comprendono le diverse confessioni cristiane.[1] Una prima riflessione conferma che la Bibbia resta il “luogo” più efficace per l’incontro tra i cristiani. Lo avevano intuito già i padri conciliari e lo conferma l’Instrumentum laboris: “In generale, si nota con soddisfazione che la Bibbia è oggi il maggior punto di incontro per la preghiera e il dialogo tra le Chiese e le comunità ecclesiali. Si è presa coscienza che la fede che ci unisce e gli accenti diversi nell’interpretazione della stessa Parola sono un invito a riscoprire insieme le motivazioni che hanno creato la divisione. Rimane, tuttavia, la convinzione che i progressi fatti nel dialogo ecumenico con la Parola di Dio possono produrre altri effetti benefici”(54).
La ricerca fa emergere il notevole cammino realizzato particolarmente dai cattolici: negli ultimi 40 anni è stata cancellata quella “distanza” che si riscontrava ad esempio con il mondo protestante. Sorprende l’attenzione alle Scritture che si riscontra nella Russia europea. Ed è assolutamente straordinaria, rispetto agli altri paesi intervistati, la forte attenzione alla Bibbia che si riscontra negli Stati Uniti d’America, sia in ambito protestante che cattolico. Una riflessione approfondita meriterebbe la diversità di approccio alla Bibbia che si rileva nei diversi paesi esaminati. Una prima osservazione riguarda il rapporto che la lettura delle Scritture ha con l’intero impianto pastorale, in particolare con la tenuta del tessuto ecclesiale. C’è poi il fenomeno della interpretazione della Bibbia nella grande galassia pentecostale. Ph. Jenkins[2], in un apposito studio, ritiene che nelle comunità pentecostali dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia gli atteggiamenti nei confronti della Bibbia sono molto diversi rispetto a quelli che hanno le denominazioni protestanti storiche del Nord. Non si tratta unicamente di una lettura più “entusiasta, immediata e diretta” delle Scritture, magari anche con una tentazione fondamentalista rispetto a quella più individualista e illuminista delle Chiese del nord del mondo. C’è un diverso modo di considerare il testo sacro, anche perché nelle comunità del Sud è chiara la dimensione di popolo che hanno le Chiese. Tale dimensione condiziona anche l’interpretazione delle Scritture.
Ascolto comune delle Scritture
Va tenuto presente, tuttavia, che nel dialogo ecumenico il terreno biblico è quello ove si è fatto il maggiore progresso ed è anche quello ove è possibile ancora una notevole collaborazione. Non mancano anche qui i problemi, di cui alcuni particolarmente delicati. L’incontro sulle Scritture però permette oggi un più robusto incontro tra i cristiani. Il significato ecumenico della lettura della Bibbia, nell’ascolto sincronico e diacronico, non è tuttavia ancora ben compreso nella sua ricchezza e nella sua indispensabilità. Ma là dove questo viene praticato fa emergere la ricchezza del patrimonio spirituale delle diverse tradizioni. La ricchezza di questo ascolto comune giova alla crescita spirituale di tutti, rende più audaci nel far maturare la comunione già esistente, allontana dalla tentazione di vivere la propria identità in maniera autosufficiente e spinge quindi a non ripiegarsi su se stessi. Attraverso l’ascolto delle Scritture il Signore continua a radunare il suo popolo e farlo crescere nell’amore e nella verità.
Non si deve dimenticare, inoltre, che l’ascolto comune delle Scritture spinge anche verso un annuncio comune. La stessa origine del movimento ecumenico lo conferma. E ancora oggi – soprattutto nei paesi non europei – appare evidente la contraddizione tra le divisioni dei cristiani e l’obbligo di un annuncio credibile agli uomini del nostro tempo. Il dialogo ecumenico sarà senza dubbio più fruttuoso se, concentrandosi spiritualmente sulla Parola di Dio, cederà il posto al dialogo di Dio con tutti i cristiani. E’ la via per superare più facilmente anche quel malessere che oggi appare qua e là nel dialogo tra i cristiani. La Parola di Dio ammonisce tutti i cristiani contro ogni chiusura e incoraggia nel cammino dell’unità. Nell’ascolto comune infatti i cristiani non solo si trovano già sulla via dell’unità, ma ne ricevono un vigore nuovo. E forse l’icona di Emmaus può rappresentare bene il cammino ecumenico: il lungo ascolto porta verso la “frazione del pane”: allora i nostri occhi si apriranno per riconoscere il Risorto. E’ vero che la Lectio non è la panacea per risolvere i problemi ecumenici, ma appare oggi la via privilegiata per raggiungere l’unità visibile dei cristiani. Su di essa dobbiamo affrettare il passo, la Parola infatti per sua stessa natura tende alla comunione piena della mensa eucaristica e all’amore per il prossimo.
Traduzione e diffusione comune della Bibbia
C’è un ulteriore aspetto che può vedere i cristiani già uniti in un comune impegno: la traduzione e la diffusione della Bibbia. Già nel 1968 vennero redatti i Principi comuni per la collaborazione interconfessionale per la traduzione della Bibbia, aggiornati successivamente nel 1987. Ormai le traduzioni protestanti della Bibbia sono sempre più utilizzate dai cattolici e viceversa. In pochi decenni sono stati realizzati più di 300 progetti in comune, anche se mancano i problemi. Negli anni ‘90 la collaborazione delle Società Bibliche si è estesa alla Chiesa Ortodossa Russa e al Patriarcato Ecumenico di Constantinopoli, raggiungendo così una sempre più effettiva e piena cooperazione in ogni aspetto del lavoro (traduzione, stampa e diffusione della Bibbia). La più importante di queste iniziative comuni è la Traduction oecuménique de la Bible (TOB) frutto del lavoro di biblisti protestanti e cattolici provenienti dall’area di lingua francese. In misura minore anche la Chiesa ortodossa e biblisti ortodossi hanno collaborato a questa impresa. Nel 1972 furono pubblicati il Nuovo Testamento e tre anni più tardi l’Antico Testamento coi libri deuterocanonici, sia nella versione delle Società bibliche unite in un unico volume con note abbreviate, sia in una versione integrale più ampia con estese introduzioni e note. Va ricordata la Eineits Ubersetzung, in Germania, anche se ultimamente sono sopraggiunte alcune difficoltà [3].
In ogni caso le Società Bibliche sono oggi impegnate insieme alle Chiese cristiane in circa 800 progetti di traduzione o revisione della Bibbia nelle lingue di tutto il mondo. E la diffusione riguarda circa 500 milioni di testi biblici ogni anno (Bibbie, Nuovi Testamenti, singoli libri biblici o loro selezioni). Negli anni ‘60 si è consolidata una collaborazione specifica tra l’Alleanza Biblica Universale con studiosi cattolici per l’edizione critica del testo greco del Nuovo Testamento, The UBS Greek New Testament. Alcuni cattolici inoltre sono stati invitati a far parte del Comitato responsabile del progetto di analisi dei problemi di critica testuale dell’Antico Testamento in vista di una nuova edizione critica della Biblia Hebraica (la Quinta editio).
Il lavoro sino ad ora svolto è stato preziosissimo. Molto però resta da fare. La Bibbia è stata già tradotta in 2454 lingue diverse (interamente in 438, il solo Nuovo Testamento in 1168, e solo alcuni libri, ad esempio i Vangeli o i Salmi, in altre 848); restano ancora altre 4500 lingue in attesa di essere confrontate con le Sante Scritture. Se poi si calcola che le Società Bibliche hanno distribuito nel 2006 circa 26 milioni di Bibbie, vuol dire che si è raggiunto solo l’1 o il 2 per cento dei 2 miliardi di cristiani. Di fronte all’urgenza di diffondere la Bibbia i due organismi più noti, la Federazione Biblica Cattolica e le Società Bibliche, sebbene siano istituzioni molto diverse, firmano un comune accordo per favorire traduzioni e diffusione della Bibbia.
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[1] In particolare, nel caso del Regno Unito il sub campione di “praticanti” è costituito da individui che si dichiarano anglicani presbiteriani o di qualche Chiesa del protestantesimo storico, nel caso della Russia da Ortodossi. Anche in altri paesi (Stati Uniti, Olanda e Germania) la presenza di protestanti è sufficientemente rappresentata nel campione principale.
[2] Ph. Jenkins, I nuovi volti del cristianesimo, Milano 2008.
[3] In Germania, ad esempio, vi è un momento di stallo nella collaborazione cattolico-evangelica per la revisione della “traduzione unitaria” della sacra Scrittura. E in Slovenia sono sorte difficoltà per la scelta di un’unica traduzione per la Bibbia per tutti i cristiani del paese. Le difficoltà comunque non debbono frenare il cammino intrapreso. Lo stesso Consiglio delle Chiese evangeliche tedesche ribadisce che in ogni caso ” la Bibbia è e rimane il vincolo più forte che unisce tra loro le Chiese cristiane”.
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Bartolomeo I, Intervento al Sinodo dei Vescovi
Roma, 18 ottobre 2008
Santità, Padri Sinodali, è al contempo motivo di disagio e di ispirazione essere cortesemente invitato da Vostra Santità a rivolgermi alla XII Assemblea Generale Ordinaria di questo ben augurante Sinodo dei Vescovi, storico incontro dei Vescovi della Chiesa Cattolica Romana da ogni parte del mondo, riuniti in un unico luogo per meditare su “la Parola di Dio” e deliberare sull’esperienza e sull’espressione di tale Parola “nella vita e nella missione della Chiesa”.
Il gentile invito di Vostra Santità alla nostra modesta persona è un gesto colmo di contenuto e di significato – abbiamo l’ardire di considerarlo come evento storico in se stesso. Si tratta della prima volta nella storia che ad un Patriarca Ecumenico è offerta l’opportunità di rivolgersi ad un Sinodo dei Vescovi della Chiesa Cattolica Romana, e così esser parte a così alto livello della vita di questa Chiesa sorella. Consideriamo questo come una manifestazione dello Spirito Santo che guida le nostre Chiese ad una relazione sempre più stretta e profonda fra noi, un passo importante per la restaurazione della nostra piena comunione.
È ben noto come la Chiesa Ortodossa attribuisca al sistema sinodale un’importanza ecclesiologica fondamentale. Insieme con il primato, la sinodalità costituisce la spina dorsale del governo e dell’organizzazione della Chiesa. Come la nostra Commissione Internazionale Congiunta sul Dialogo Teologico fra le nostre Chiese lo ha espresso nel documento di Ravenna, tale interdipendenza fra sinodalità e primato percorre tutti i livelli della vita della Chiesa: locale, regionale ed universale. Avendo, pertanto, oggi il privilegio di rivolgerci al Vostro Sinodo, aumentano le nostre speranze che arriverà il giorno in cui le nostre due Chiese convergeranno pienamente sul ruolo del primato e della sinodalità nella vita della Chiesa, argomento al quale la nostra comune Commissione Teologica attualmente dedica il proprio studio.
Il tema che affronta questo Sinodo episcopale è di significato cruciale non soltanto per la Chiesa Cattolica Romana, ma anche per tutti quelli che sono chiamati a dar testimonianza di Cristo nel nostro tempo. La missione e l’evangelizzazione restano un obbligo permanente della Chiesa in tutti i tempi ed in ogni luogo. Di più: esse sono parte della natura stessa della Chiesa, dato che essa è chiamata “Apostolica” sia nel senso della sua fedeltà all’insegnamento originale degli Apostoli, sia in quello di proclamare la Parola di Dio in ogni contesto culturale e in ogni tempo. La Chiesa ha bisogno, pertanto, di riscoprire la Parola di Dio in ogni generazione e porla a guida con rinnovato vigore e capacità persuasiva anche nel nostro mondo contemporaneo, il quale, nelle sue più intime profondità, ha sete del messaggio di Dio, messaggio di pace, speranza e carità.
Questo compito di evangelizzare avrebbe potuto essere grandemente favorito e rafforzato, è ovvio, se tutti i cristiani fossero stati in grado di realizzarlo ad una sola voce e come Chiesa pienamente unita. Nella sua preghiera al Padre, poco prima della propria Passione, nostro Signore ha messo in chiaro che l’unità della Chiesa è inscindibilmente correlata con la sua missione “affinché il mondo creda” (Giovanni 17, 21). È pertanto quanto mai appropriato che questo Sinodo abbia aperto le proprie porte ai delegati ecumenici fraterni, così che tutti diventiamo coscienti del nostro comune dovere dell’evangelizzazione, come pure delle difficoltà e dei problemi della sua realizzazione nel mondo odierno.
Questo Sinodo, indubbiamente, si è dedicato a studiate il soggetto “Parola di Dio” in profondità ed in tutti i suoi aspetti, sia teologici che pratici e pastorali. Nel nostro umile intervento di fronte a voi ci limiteremo a condividere con voi alcuni pensieri sul tema della vostra assemblea, deducendoli dal modo in cui la tradizione ortodossa lo ha affrontato attraverso i secoli e, in particolare, nell’insegnamento patristico greco.
Più concretamente, vorremmo concentrarci su tre aspetti dell’argomento, e precisamente: sull’ascoltare e proclamare la Parola di Dio attraverso le Sacre Scritture; sul vedere la Parola di Dio nella natura e, soprattutto, nella bellezza delle icone; e, da ultimo, sul toccare e condividere la Parola di Dio nella comunione dei Santi e nella vita sacramentale della Chiesa. Infatti, noi riteniamo che questi aspetti siano cruciali nella vita e nella missione della Chiesa.
Nel far questo, cercheremo di attingere alla ricca tradizione patristica, che risale all’inizio del terzo secolo ed espone una dottrina dei cinque sensi spirituali, dato che ascoltare la Parola di Dio, scrutarla e toccarla sono tutte vie spirituali per percepire l’unico mistero divino. Basandosi su Proverbi 2, 5 circa “la facoltà divina di percezione (áisthesis)”, Origene di Alessandria afferma: “Tale senso si snoda come vista per contemplare le forme immateriali, ascolto per discernere le voci, gusto per assaporare il pane vivo, profumo per la dolce fragranza spirituale, e tatto per maneggiare la Parola di Dio, che è afferrata mediante ogni facoltà dell’anima”.
Questi sensi spirituali vengono in vario modo descritti come “i cinque sensi dell’anima”, come “divine” o “intime facoltà”, e addirittura come “facoltà del cuore” o della “mente”. Questa dottrina ha ispirato la teologia dei Cappadoci (specialmente di Basilio Magno e Gregorio di Nissa), come quella dei Padri del Deserto (in modo speciale di Evagrio Pontico e Macario il Grande).
1. Udire e proclamare la Parola attraverso le Scritture
In ogni celebrazione della Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo, il celebrante che presiede l’Eucaristia implora affinché “siamo resi degni di ascoltare il Santo Vangelo”, poiché “ascoltare, vedere, toccare con le nostre mani il Verbo della vita” (cfr. 1 Giovanni 1, 1) non è prima e anzitutto nostro diritto nativo e fontale come esseri umani; è piuttosto nostro privilegio e dono come figli del Dio vivente. La Chiesa cristiana è, al di sopra di tutto, una Chiesa scritturistica. Anche se i metodi interpretativi possono aver variato da Padre della Chiesa a Padre della Chiesa, da “scuola” a “scuola”, e dall’est all’ovest, tuttavia la Scrittura è sempre stata recepita come una realtà viva e non come un libro morto.
Nel contesto di una fede viva, pertanto, la Scrittura è la testimonianza vivente di una storia vissuta circa il rapporto di un Dio vivo con un popolo vivo. La Parola “che ha parlato mediante i Profeti” (Credo Niceno-Costantinopolitano), ha parlato per essere udita e produrre effetto, è primariamente una comunicazione orale e diretta rivolta a destinatari umani. Il testo scritturistico è perciò derivato e secondario, poiché il testo scritturistico serve sempre la parola parlata; non viene trasmesso meccanicamente, ma comunicato di generazione in generazione come una parola vivente. Mediante il Profeta Isaia, il Signore promette: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo per irrigare la terra… così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (cfr. 55, 10-11).
Di più: come spiega san Giovanni Crisostomo, la Parola divina manifesta profonda condiscendenza (sunkatábasis) per la diversità personale e per i contesti culturali di quanti l’odono e la ricevono. L’adattamento della Parola divina alla specifica disponibilità personale ed al contesto culturale particolare definisce la dimensione missionaria della Chiesa, chiamata a trasformare il mondo attraverso la Parola. Nel silenzio o nella proclamazione, nella preghiera o nell’azione, la Parola divina si rivolge al mondo intero, “ammaestrando tutte le nazioni” (Matteo 28, 19) senza alcun privilegio o pregiudizio nei confronti della razza, della cultura, del sesso o della classe. Quando obbediamo a questo divino comando, siamo rassicurati: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni” (Matteo 28, 20). Siamo chiamati ad annunciare la Parola divina in tutte le lingue “facendoci tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (cfr. 1 Corinzi 9, 22).
Quali discepoli della Parola di Dio, dunque è oggi più doveroso che mai che noi offriamo una prospettiva unica – al di là del sociale, del politico o dell’economico – circa la necessità di sradicare la povertà, di offrire equilibrio in un mondo globalizzato, di combattere il fondamentalismo o il razzismo, di sviluppare la tolleranza religiosa in un mondo di conflitti. Nel dar risposta alle necessità dei poveri del mondo, a quanti sono vulnerabili ed emarginati, la Chiesa può dimostrarsi un baluardo che definisce lo spazio e il carattere della comunità globale. Se da un lato il linguaggio teologico della religione e della spiritualità differisce dal vocabolario tecnico dell’economia e della politica, dall’altro le barriere che di primo acchito sembrano separare le preoccupazioni religiose (come, ad esempio, il peccato, la salvezza e la spiritualità) dagli interessi pratici (quali la contrattazione, lo scambio di merci e la politica) non sono impenetrabili, e crollano di fronte alle molteplici sfide della giustizia sociale e della globalizzazione.
Sia che si tratti di ambiente o di pace, di povertà o di fame, di educazione o di sanità, vi è oggi un accresciuto senso del comune coinvolgimento e della comune responsabilità, che viene percepita in maniera particolarmente acuta dalle persone di fede, ma anche da quanti hanno una prospettiva manifestamente secolare. Il nostro impegno in simili ambiti ovviamente non minaccia in alcuna maniera né abolisce le differenze fra le diverse discipline né le discordanze nei confronti di quanti guardano al mondo in modi differenti. E tuttavia i segni crescenti di un comune impegno per il benessere dell’umanità e della vita del mondo sono incoraggianti. è un incontro tra singoli ed istituzioni che promette bene per il mondo. Ed è un impegno che pone in risalto la suprema vocazione e missione dei discepoli e di quanti aderiscono alla Parola di Dio per trascendere le differenze politiche o religiose, al fine di trasformare l’intero mondo visibile a gloria dell’invisibile Dio.
2. Vedere la Parola di Dio. La bellezza delle icone e della natura
In nessun altro luogo l’invisibile viene reso piu visibile che nella bellezza dell’iconografia e nella meraviglia del creato. Nelle parole di quel campione delle sacre immagini che fu san Giovanni Damasceno: “Quale creatore del cielo e della terra, Dio Verbo fu Lui stesso a dipingere e a raffigurare icone”. Ogni tratto del pennello dell’iconografo – al pari di ogni parola di una definizione teologica, di ogni nota musicale cantata nella salmodia e di ogni pietra scolpita in una piccola cappella o in una magnifica cattedrale – articola il Verbo divino nella creazione, la quale rende lode a Dio in ogni essere vivente ed in ogni vivente realtà (cfr. Salmi 150, 6).
Nell’affermare la liceità delle sacre immagini, il settimo Concilio Ecumenico di Nicea non si preoccupò dell’arte religiosa; era la continuazione e la conferma di definizioni precedenti riguardanti la pienezza dell’umanità del Verbo di Dio. Le icone sono un ricordo visibile della nostra vocazione celeste; sono un invito ad innalzarci al di sopra delle nostre preoccupazioni meschine e dei servili modi riduttivi del mondo. Ci incoraggiano a ricercare lo straordinario proprio nell’ordinario, ad essere ripieni della medesima meraviglia che caratterizzò il divino stupore nella Genesi: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1, 30-31). La parola greca (dei LXX) per “bontà”, è “kállos”, che implica – etimologicamente e simbolicamente – un senso di “chiamare”. Le icone sottolineano che la missione fondamentale della Chiesa è di riconoscere che ogni persona ed ogni cosa sono create e chiamate ad essere “buone” e “belle”.
Certamente le icone ci ricordano un altro modo di vedere le cose, un’altra maniera di far esperienza della realtà, un altro modo di risolvere i conflitti. Siamo chiamati ad assumere ciò che l’innologia della domenica di Pasqua chiama “un altro modo di vivere”. Ci siamo infatti comportati in maniera arrogante e sconsiderata verso la creazione naturale. Ci siamo rifiutati di obbedire alla Parola di Dio negli oceani del pianeta, negli alberi dei continenti, e negli animali della terra. Abbiamo rinnegato la nostra stessa natura, che ci invita a chinarci sufficientemente in basso per udire la Parola di Dio nella creazione, se vogliamo “divenire partecipi della natura divina” (2 Pietro 1, 4). Come possiamo ignorare le piu vaste implicazioni del Verbo divino che ha assunto la carne? Perché non siamo in grado di percepire la natura creata quale estensione del corpo di Cristo?
I teologi dell’Oriente cristiano hanno sempre sottolineato le proporzioni cosmiche dell’incarnazione divina. Il Verbo incarnato è intrinseco alla creazione, che è venuta all’esistenza attraverso un divino pronunciamento. San Massimo il Confessore insiste sulla presenza della Parola divina in ogni cosa (cfr. Colossesi 3, 11); il Logos divino è al centro del mondo, rivelando in modo misterioso il suo originale principio e ultimo scopo (cfr. 1 Pietro 1, 20). Tale mistero viene descritto da sant’Atanasio di Alessandria: “Come Verbo – scrive – Egli non è contenuto da nulla e, tuttavia, contiene tutto. È in tutto e, tuttavia, al di fuori di tutto… il Primogenito del mondo intero in ogni suo aspetto”.
L’intero mondo è un prologo al Vangelo di Giovanni e quando la Chiesa è incapace di riconoscere le dimensioni piu ampie, cosmiche della Parola di Dio, restringendo le proprie preoccupazioni ad argomenti puramente spirituali, trascura la propria missione di implorare Dio per la trasformazione – sempre e dovunque, “in ogni luogo del dominio del Signore – dell’intero cosmo inquinato. Non è da meravigliarsi, quindi, che nella domenica di Pasqua, quando la celebrazione pasquale raggiunge il suo culmine, i cristiani ortodossi cantino: “Ora tutto è riempito di luce divina: cielo e terra, ed ogni cosa sotto terra. Si rallegri, pertanto, l’intera creazione”.
Ogni genuina “ecologia profonda” è pertanto collegata intrinsecamente con la teologia profonda: “Anche una pietra – scrive Basilio Magno – reca in sé il marchio della Parola di Dio. Ciò vale per una formica, un’ape ed una mosca, le più piccole fra le creature. Perché Egli apre gli ampi cieli e stese l’immenso mare, ed Egli creò la piccola custodia del pungiglione dell’ape”. Ricordare la nostra piccolezza nell’ampia e splendida creazione di Dio sottolinea semplicemente il nostro ruolo centrale nel piano di Dio per la salvezza del mondo intero.
3. Toccare e condividere la Parola di Dio. La comunione dei Santi e i Sacramenti della vita.
La Parola di Dio costantemente “esce fuori di Se stessa in estasi” (Dionigi Aeropagita), cercando in maniera appassionata di “dimorare in noi” (Giovanni 1, 14), perché il mondo abbia la vita in abbondanza (Giovanni 10, 10). La compassionevole misericordia di Dio viene riversata e condivisa “affinché vengano moltiplicati gli oggetti della Sua beneficenza” (Gregorio il Teologo). Dio assume tutto ciò che è nostro “essendo provato in ogni cosa, come noi, eccetto il peccato” (Ebrei 4, 15), al fine di offrirci ogni cosa che è di Dio e renderci dei per grazia. “Da ricco che era, si è fatto povero, perché noi diventassimo ricchi” (2 Corinzi 8, 9), scrive l’apostolo Paolo, al quale questo anno è giustamente dedicato. Questo è il Verbo di Dio: a Lui siano rese grazie e gloria.
La parola di Dio riceve la sua piena incorporazione nella creazione e, soprattutto, nel sacramento della Santissima Eucaristia. è qui che il Verbo diviene carne e ci permette non soltanto di udirlo o vederlo, ma di toccarlo con le nostre stesse mani, come dichiara san Giovanni (1 Giovanni 1, 1) e di farlo parte del nostro stesso corpo e sangue (sússomoi kai súnaimoi), secondo le parole di san Giovanni Crisostomo.
Nella Santa Eucaristia la Parola ascoltata è al tempo stesso veduta e condivisa (koinonía). Non è un caso accidentale che nei primi documenti eucaristici, come ad esempio l’Apocalisse e la Didaché, l’Eucaristia fosse associata con la profezia, e i Vescovi che la presiedevano fossero visti come successori dei profeti (ad esempio, nel Martirio di Policarpo). Già da san Paolo l’Eucaristia (1 Corinzi 11) veniva descritta come “proclamazione” della morte di Cristo e della sua Seconda Venuta. E poiché lo scopo della Scrittura è essenzialmente la proclamazione del Regno e l’annuncio delle realtà escatologiche, l’Eucaristia è un pregustamento del Regno, e in questo senso è la proclamazione del Verbo per eccellenza. Nell’Eucaristia, Parola e Sacramento divengono un’unica realtà. La parola cessa di essere “parole” e diviene una Persona, che incarna in se stessa tutti gli esseri umani e l’intera creazione.
Dentro la vita della Chiesa, l’indicibile svuotamento di sé (kénosis) e la generosa condivisione (koinonía) del Logos divino sono riflessi nelle vite dei Santi quale esperienza tangibile ed espressione umana della Parola di Dio nella nostra comunitr. Cose, la Parola di Dio diviene Corpo di Cristo, crocifisso e glorificato allo stesso tempo. Ne risulta che i Santi hanno una relazione organica con il cielo e la terra, con Dio e l’intera creazione. Nel combattimento ascetico, il Santo riconcilia la Parola con il mondo. Attraverso il pentimento e la purificazione, il Santo viene riempito – come insiste Abba Isacco il Siro – di compassione per tutte le creature, cosa che è la suprema umiltà e perfezione.
Questa è la ragione per cui il Santo ama con ardore e ampiezza non condizionati ed irresistibili. Nei Santi conosciamo la Parola stessa di Dio, dato che – come afferma san Gregorio Palamas – “Dio e i suoi Santi condividono la medesima gloria e splendore”. Nella presenza gentile di un Santo apprendiamo come teologia e azione coincidano; nell’amore compassionevole del Santo, sperimentiamo Dio come “Padre nostro” e la sua misericordia è “ferma ed eterna” (cfr. Salmi 135, LXX). Il Santo è consumato dal fuoco dell’amore di Dio: questa è la ragione per cui egli distribuisce grazia e non può tollerare la minima manipolazione o sfruttamento sia nella società che nella natura. Il Santo fa semplicemente ciò che è “appropriato e giusto” (Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo), sempre dignificando l’umanità e onorando la creazione. “Le sue parole hanno la forza delle azioni ed il suo silenzio la potenza di un discorso” (sant’Ignazio di Antiochia).
Entro la comunione dei Santi, ciascuno di noi è chiamato a “diventare come fuoco” (Detti dei Padri del Deserto), a toccare il mondo con la mistica forza della Parola di Dio, cose che – quale esteso corpo di Cristo – anche il mondo possa dire: “Qualcuno mi ha toccato” (cfr. Matteo 9, 20). Il male viene sradicato soltanto dalla santitò, non dalla durezza; la santità introduce nella società un seme che guarisce e trasforma. Arricchiti della vita sacramentale e della preghiera pura, siamo in grado di entrare nel mistero piu recondito della Parola di Dio. Avviene come per le placche tettoniche della crosta terrestre: gli strati piu profondi devono spostarsi solo di pochi millimetri per scuotere la superficie del mondo. E tuttavia, perché tale rivoluzione spirituale avvenga, dobbiamo fare esperienza della metánoia radicale – una conversione dei comportamenti, delle abitudini e della prassi – nei confronti dei modi con i quali abbiamo travisato o mal usato la Parola di Dio, i doni di Dio e la creazione di Dio.
Una simile conversione è, ovviamente, impossibile senza la grazia divina; non la si può raggiungere semplicemente attraverso sforzi piu grandi o forza di volontà umana. “Per i mortali è impossibile, ma per Dio ogni cosa è possibile” (Matteo 19, 26). Il mutamento spirituale avviene quando i nostri corpi ed anime sono innestati sulla vivente Parola di Dio, quando le nostre cellule contengono lo scorrere del sangue vivificante che proviene dai Sacramenti; quando siamo aperti a condividere ogni cosa con ogni persona. Come ci ricorda san Giovanni Crisostomo, il sacramento del “nostro prossimo” non può essere isolato dal sacramento “dell’altare”. Purtroppo, abbiamo ignorato la vocazione a condividere e il dovere che ne consegue. L’ingiustizia sociale e l’ineguaglianza, la povertà globale e la guerra, l’inquinamento e il degrado ecologico derivano dalla nostra incapacità o non volontà di condividere. Se affermiamo di possedere il Sacramento dell’altare, non possiamo soprassedere o dimenticare il sacramento del prossimo, condizione fondamentale per realizzare la Parola di Dio nel mondo, entro la vita e la missione della Chiesa.
Carissimi Fratelli in Cristo,
abbiamo esplorato l’insegnamento patristico dei sensi spirituali, percependo la potenza dell’ascoltare e del pronunciare la Parola di Dio nella Scrittura, del vedere la Parola di Dio nelle icone e nella natura, come pure del toccare e condividere la Parola di Dio nei Santi e nei Sacramenti. Orbene, per rimanere fedeli alla vita e alla missione della Chiesa, dobbiamo essere personalmente cambiati da questa Parola. La Chiesa deve apparire quale madre, sostenuta e nutrita attraverso il cibo che essa mangia. Tutto ciò che non è cibo e non nutre chiunque altro, non può sostenere neppure noi. Quando il mondo non condivide la gioia della Risurrezione di Cristo, ciò diventa un atto d’accusa nei confronti della nostra stessa integrità e del nostro impegno verso la vivente Parola di Dio. Prima della celebrazione di ogni Divina Liturgia, i cristiani ortodossi pregano che tale Parola sia “spezzata e consumata, distribuita e condivisa” in comunione. E noi “sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i nostri fratelli” e sorelle (1 Giovanni, 3, 14).
La sfida che sta di fronte a noi è il discernimento della Parola di Dio nei confronti del male, la trasfigurazione di ogni più piccolo dettaglio e frammento di questo mondo alla luce della Risurrezione. La vittoria è già presente nelle profondità della Chiesa, ogni volta che sperimentiamo la grazia della riconciliazione e della comunione. Mentre combattiamo la nostra battaglia – in noi stessi e nel mondo – per riconoscere la potenza della Croce, cominciamo ad apprezzare come ogni atto di giustizia, ogni sprazzo di bellezza, ogni parola di verità possano gradualmente raschiar via la crosta del male. Tuttavia, al di là dei nostri fragili sforzi, abbiamo la rassicurazione dello Spirito, che “ci sostiene nelle nostre debolezze” (Romani 8, 26) ed è al nostro fianco come avvocato e “consolatore” (Giovanni 14, 6), penetrando tutte le cose e “trasformandoci – come dice san Simeone il Nuovo Teologo – in ogni cosa che la Parola di Dio afferma circa il Regno di Dio: perla, chicco di senape, lievito, acqua, fuoco, pane, vita e mistica camera delle nozze”. Tale è la potenza e la grazia dello Spirito Santo che noi invochiamo, mentre concludiamo il nostro intervento, estendendo a Vostra Santità la nostra gratitudine e a ciascuno di voi qui presenti la nostra benedizione: Re del cielo, Consolatore, Spirito di verità, Presente ovunque per riempire ogni cosa; Tesoro di bontà e datore di vita: Vieni e dimora in noi. Purificaci da ogni impurità; Salva le nostre anime. Poiché tu sei buono ed ami l’umanità. Amen.
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card. Crescenzio Sepe, Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. Meditazione su 1 Giovanni 4, 16b – 21
Nicosia (Cipro), 18 novembre 2008
Per questo l’amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo. Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello.
Cari fratelli e care sorelle, “Dio è amore e chi abita nell’amore abita in Dio e Dio abita in lui”. Così abbiamo ascoltato nella prima lettera di Giovanni.
Dove abita Dio? Era la domanda di Israele ed è la domanda profonda di ognuno di noi. Come e dove incontrare il Signore? Il re Salomone nella sua saggezza, dopo aver edificato il tempio, si rivolse al Dio onnipotente dicendo: “E’ proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli dei cieli non ti possono contenere, tanto meno questa casa che io ti ho costruito” (1 Re 8,27). Dio ha mandato il suo Figlio Unigenito ad abitare in mezzo a noi, e in Lui si è reso visibile il grande amore che Dio ha per l’umanità. In questi giorni noi abbiamo sperimentato ancora una volta la verità e la gioia dell’amore di Dio, che possiamo vivere perché egli è venuto ad abitare in mezzo a noi. Questa presenza si è rivelata nell’amore con il quale siamo stati accolti dalla Chiesa di Cipro e dal suo Arcivescovo, si è manifestata nel nostro amore vicendevole, perché tutti protesi alla ricerca comune della pace in un mondo diviso e segnato dalla violenza e dai conflitti, si è rivelata in questi ventidue anni di incontri che la Comunità di Sant’Egidio con pazienza e tenacia ha voluto continuassero.
Sì, l’amore ha vinto il timore che ci divideva dagli altri, quel timore che allontana e induce al pregiudizio e alla diffidenza. L’amore perfetto infatti, dice Giovanni, scaccia il timore. Nella paura si nasconde la tentazione del maligno che vuole allontanarci, che crea inimicizia. La paura ci abitua a pensare che le divisioni ancora esistenti tra noi cristiani siano insuperabili e ci induce ad accettarle come qualcosa di normale.
In questi giorni, pur nella consapevolezza della distanza che talvolta ci separa e della ferita della divisione, abbiamo vissuto gli uni accanto agli altri, abbiamo scoperto che nell’amore vicendevole, nell’incontro, nel colloquio, la paura perde la sua forza, e così ci siamo trovati più vicini e più fratelli. E’ il miracolo di Cipro, come è stato il miracolo di Assisi e il miracolo di Napoli che ha posto radici nella mia città, è il miracolo che ogni anno si ripete con la Comunità di Sant’Egidio: uomini e donne di religioni diverse, cristiani di differenti Chiese e Comunità sono stati abitati dall’amore di Dio e hanno ritrovato negli altri quell’immagine che Dio ha posto fin dall’inizio in ogni sua creatura. Nell’amore abbiamo così visto che Dio abita in noi e che il Cristo risorto ha vinto per sempre il timore.
Cari fratelli, dobbiamo essere grati al Signore perché davvero l’amore viene da Lui e noi ne siamo stati toccati e ne siamo testimoni. Noi cristiani con più chiarezza contempliamo in Gesù la gratuità dell’amore di Dio, che ci induce a non aspettare mai che siano gli altri ad amarci per primi, ed a scoprire che è nostro compito amare per primi il fratello perché siamo stati amati da Dio senza nostro merito e senza misura.
La preghiera di questa sera ci purifica da quei sentimenti e pensieri che ci tengono lontani e permette ad ognuno di noi di accordarci con il cuore di Dio e con l’amore che viene da Lui per obbedire sempre al suo comandamento: “Chi ama Dio ami anche il proprio fratello”. Siamo consapevoli di avere tutti il debito di un amore vicendevole. Questa consapevolezza, che è anche parte essenziale della nostra fede, si è rafforzata durante i nostri incontri e i nostri colloqui. Chiediamo al Signore di mantenerci tutti nello spirito che abbiamo respirato a Cipro, perché contribuiamo con l’amore che vince il timore a rendere il mondo più umano e ad avvicinare gli uomini e i popoli.
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card. Angelo Bagnasco – mons. Mariano Crociata, In morte del Patriarca Alessio II
Roma, 5 dicembre 2008
La Conferenza Episcopale Italiana, nella persona del Presidente, S.Em. il Cardinale Angelo Bagnasco, e del Segretario Generale, S.E. Mons. Mariano Crociata, nella preghiera affida a Dio l’anima di Sua Santità Alessio II, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, partecipando al dolore della Chiesa Ortodossa Russa per la sua scomparsa.
Egli ha rappresentato un punto di riferimento per tutta la Cristianità e ha operato attivamente nel promuovere il dialogo ecumenico, sostenendo quella tensione all’unità che realizza il comando del Signore.
Consapevoli del suo alto magistero e del ruolo determinante nella crescita del suo Paese, grati per la sua ripetuta presenza in terra italiana, esprimiamo il nostro cordoglio alla Chiesa Ortodossa Russa, nella certezza che il Padre misericordioso ricompenserà il suo servo fedele.
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mons. Vincenzo Paglia, La morte di Alessio II
Terni, 5 dicembre 2008
La notizia della inaspettata scomparsa del patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Sua Santità Aleksij II mi ha turbato profondamente. Infatti ho avuto la fortuna di stabilire con lui in questi anni un intenso rapporto personale. Agli inizi del mese di ottobre ho avuto con lui l’ultimo mio incontro ed è tuttora molto viva la memoria di un colloquio svoltosi in un clima di autentico amore fraterno. Con la sua morte scompare una personalità di primissimo piano del mondo cristiano. È stato un protagonista della vita travagliata della Chiesa russa nella seconda metà del Novecento, nei difficili anni sovietici dapprima, e poi in quelli della rinascita dopo la fine dell’oppressione comunista. Il suo patriarcato infatti ha guidato la Chiesa negli anni della riacquisita libertà, della ripresa della vita religiosa, del ristabilimento di una piena vita ecclesiale in Russia e negli altri paesi ex-sovietici. Ho potuto osservare in questi anni il commovente processo di rinascita della fede in Russia, del “secondo battesimo della Rus’”, come amava dire Aleksij II, dal quale non poche volte ho ascoltato parole di ringraziamento al Signore per i frutti di tale itinerario.
Nei miei incontri con Aleksij II, che è stato negli ultimi cinquant’anni un protagonista del cammino ecumenico, ho sentito parole di sincero e profondo apprezzamento per il Santo Padre, Benedetto XVI e per il suo insegnamento, che reputava essere un contributo fondamentale alla difesa dei valori cristiani nel mondo contemporaneo. Egli auspicava uno sviluppo e un ulteriore avvicinamento tra Chiesa russa e Chiesa cattolica. Nel suo orizzonte spirituale e religioso un posto significativo era occupato dall’Italia e dalla sua Chiesa, di cui amava ricordare il radicamento profondo nella società e la viva fede del suo popolo. Citava sempre con grande simpatia gli incontri che aveva avuto con vescovi e delegazioni della Chiesa italiana, con la quale si erano stabilite relazioni che riteneva essere un esempio per i rapporti fraterni tra la Chiesa ortodossa e quella cattolica.
La memoria e la preghiera nutrono i sentimenti di dolore e di sincera vicinanza a tutta la Chiesa ortodossa russa in questo momento di lutto per lei.
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