Per una rassegna stampa sull’Ecumenismo
Ecumenismo in Italia
Avrà sede a Venezia il «Centro» intitolato al vescovo Ablondi
«Avvenire» (27 novembre 2008)
Avrà sede presso l’Istituto di studi ecumenici «San Bernardino», a Venezia, e sarà diretto da Riccardo Burigana. Stiamo parlando del «Centro per l’ecumenismo in Italia Alberto Ablondi» che nasce sull’onda storica del Cedomei (Centro di documentazione del Movimento ecumenico italiano) di Livorno. È intitolato a «un vescovo che ha speso tutta la sua vita nel dialogo»: Ablondi, 84 anni, che ha guidato la diocesi di Livorno fino al 2000. A presentarlo in questi termini è stato ieri mattina a Roma lo stesso Burigana, parlando ai delegati diocesani per l’ecumenismo e il dialogo. Il centro si avvarrà di una nutrita biblioteca dove saranno curati «la raccolta, la conservazione e lo studio della memoria storica dell’ecumenismo in Italia, attraverso il recupero di documentazione cartacea, audio e video». Il centro ha anche il compito di aggiornare tutta l’informazione relativa all’attività ecumenica, in Italia e in Europa, con particolare attenzione alle iniziative a livello diocesano. Presto sarà aperto il sito www.centroablondi.it .Il centro ha anche curato un «Annuario per l’ecumenismo in Italia», con informazioni sugli organismi ecumenici (nazionali, regionali e diocesani) e una mappa di tutte le Chiese e comunità cristiane in Italia.
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La sua spada non divide, ma riunifica
L’Anno paolino si è aperto con gesti di valore ecumenico di Benedetto XVI e Bartolomeo I
Elio Bromuri
«La Voce»
L’anno dedicato a san Paolo, proclamato da Benedetto XVI per la Chiesa cattolica, è stato promosso anche da Bartolomeo I per la Chiesa greco-ortodossa. Il Patriarca ecumenico ha avuto una presenza particolarmente rilevante nella festa dei santi Pietro e Paolo a Roma. Tutti hanno potuto vedere il Papa e il Patriarca, come due fratelli, pregare insieme in ginocchio davanti alla tomba di san Paolo ed hanno potuto ascoltare le omelie dell’uno e dell’altro pronunciate nella stessa celebrazione eucaristica, ricevendone il duplice segno della benedizione.
I gesti compiuti hanno manifestato, ancora una volta e in modo ancora più insistente e chiaro, la comune professione di fede contenuta nel Simbolo niceno-costantinopolitano, la grande vicinanza di sentimenti e la sintonia spirituale della preghiera. Gesti indubbiamente ecumenici che parlano ancor più, e ad un maggior numero di persone, delle dichiarazioni dottrinali. I gesti hanno inoltre il valore di formare una mentalità e determinare una consuetudine di contatti e di vicinanze che affonda le radici nella Parola di Dio e nella liturgia, criterio di fede e orientamento di vita della Chiesa.
Il richiamo all’unità della Chiesa, edificata sulla roccia di Pietro e la testimonianza (martirio) degli apostoli Pietro e Paolo a Roma, è stata messa in evidenza dalla stessa narrazione di ciò che è avvenuto sulla via di Damasco. Il fanatico fariseo che perseguitava la Chiesa di Cristo si è sentito rimproverare da Gesù: “Saulo, perché mi perseguiti?”. Il Papa commenta: “Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto”.
Citando le espressioni della Prima lettera ai Corinzi (6,16ss), Benedetto XVI immagina quindi la domanda che Cristo potrebbe rivolgere ai suoi discepoli: “Come avete potuto lacerare il mio Corpo?”.
Durante quest’Anno, in occasione d’iniziative di preghiera e di pellegrinaggio, nella coscienza e nel cuore dei cristiani, dovrebbe risuonare questa domanda sulla quale Paolo ha scommesso la sua esistenza e il suo apostolato. L’Anno paolino o sarà ecumenico o non sarà altro che un fatto devozionale come molti altri. La prospettiva della riconciliazione tra i cristiani, la chiarificazione delle posizioni teologiche, la rilettura di Paolo alla luce della contemporaneità potrà far emergere anche la dimensione della missione e del suo rinnovamento rispetto al passato.
Paolo si può vedere come l’apostolo del mondo globale, colui che ha rotto ogni steccato di separazione, vedendo nella croce di Cristo la distruzione del muro della divisione. Questa è la premessa per l’apertura di nuove frontiere alla missione, sia quella ad gentes sia quella a tutti gli areopaghi del mondo contemporaneo. I discorsi del Papa e di Bartolomeo e i gesti compiuti sono nella direzione di un anno diverso, che non si esaurisce in una serie di preghiere e di pellegrinaggi, ma considera le lettere di Paolo come il “caso serio” della Chiesa del 2000.
Il secolo e il millennio in cui non si dica più: “Io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa e io di Cristo”, ecco è l’urgente attualizzazione che viene da Paolo, riferita alle varie Confessioni cristiane. Per dare il senso dell’attualità di Paolo, Ratzinger, colto professore oltre che Papa, non ha avuto alcuna remora a tirare in ballo un film mai realizzato di Pier Paolo Pasolini sulla figura e la vita dell’Apostolo, per confermare l’idea di un Paolo che non appartiene solo al passato, e che l’iniziativa non si riferisce alla storia o all’archeologia, perché “egli è qui, oggi, tra noi”, è a noi che si rivolge ed “è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia”.
L’Anno paolino è pertanto un progetto per il presente e il futuro dell’umanità ed ha una dimensione ecumenica che interpella le Chiese, perché percorrano fino in fondo la ritrovata via dell’unità e della pace per la speranza del mondo.
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Don Vincenzo Savio: un libro racconta «l’avventura del vescovo sorridente»
Renato Burigana
«Toscana Oggi»
«Ho sempre ammirato in lui uno splendore di virtù umane e sacerdotali: il calore umano che si fa prossimo a tutti nella stima e nell’attenzione a ciascuno, scelto e cercato come figlio di Dio». Sono le parole con le quali il cardinal Bertone presenta il libro di Antonio Miscio, Vincenzo Savio. La meravigliosa avventura di un vescovo sorridente, Elledici, 2008, pp. 436.
Innanzi tutto è doveroso un ringraziamento a don Miscio, prete salesiano, che ha avuto la pazienza di incontrare i tanti amici e collaboratori di don Vincenzo (nella foto al momento dell’ingresso in diocesi di Belluno) e di ripercorrerne tutte le tappe della sua vita e della sua storia. Breve ma intensa. Lavoro non facile, perché don Savio è stato protagonista della storia ecclesiale di Livorno, Firenze, Savona e Belluno. Accanto alla sua attività di salesiano, sempre impegnato anche all’interno della Congregazione del quale faceva parte. Un libro scritto, con freschezza narrativa e quindi di facile lettura, che narra la stupenda vita di questo cristiano, amante di Gesù e della sua Chiesa. Nel volume si ripercorre la vita di don Savio dalla sua infanzia, alla formazione, ai suoi numerosi e prestigiosi incarichi, sempre accettati e ricoperti con una completa docilità alla volontà di Dio e dei suoi superiori.
Un volume che può aiutare i cristiani, come scrive il cardinale Piovanelli, nella sua introduzione, a camminare nella Chiesa con rinnovato vigore e con nuovi stimoli. «E don Vincenzo – scrive Piovanelli, che lo volle come segretario del Sinodo Fiorentino, il primo dopo il Vaticano II – è stato sempre la sentinella che vegliava per scoprire e indicare le vie del domani, lo studioso attendo dei fenomeni e delle idee e il sostenitore del confronto e della libertà di intervento, l’amico che ti si metteva accanto per farti capire accompagnando i tuoi passi» (pag. 9).
Il volume realizzato utilizzando scritti di don Vincenzo, lettere, discorsi, interventi pubblici si avvale di una serie di testimonianze raccolte con pazienza, spostandosi da un capo all’altro dell’Italia. Testimonianze di vescovi (Piovanelli, Ablondi, Andrich), sacerdoti e laici. Dei laici soprattutto Vincenzo ne era uno scopritore e un valorizzatore unico, e ne sono testimonianza le comunità religiose dove ha vissuto, le parrocchie di Livorno, i mille rapporti che aveva allacciato e che continuava a mantenere vivi, nonostante i suoi spostamenti. La sua famiglia di origine per lui è sempre stata punto di riferimento, i genitori, i fratelli e le sorelle. Il padre il giorno del pranzo, subito dopo l’ordinazione, non avrà il coraggio di leggere la breve poesia che aveva scritto, ma gli dirà »ricordati che tu sei nato povero, che siamo stati poveri» (pag. 83), e per don Vincenzo queste furono parole veramente scolpite nel cuore e realizzate nella vita. Ma è con la mamma che aveva un rapporto speciale, e padre Miscio lo mette bene in evidenza. «Mamma, le disse (quando quest’ultima stava per lasciarlo). Facciamo un patto. Io sono stato sempre molto vivo, vitale, in salute. Quel che penso di fare riesco in genere a realizzarlo. Non conosco malattia. Eppure un giorno dovrò pur fare anche questa esperienza. Facciamo allora come Elia ed Eliseo, che quando Elia fu portato in cielo gli chiese di lasciargli il mantello dei profeti. Ebbene, tu stai per andare in cielo. Io ti chiedo di lasciarmi un po’ del tuo mantello di donna che ha saputo portare e vivere il dolore» (pag. 165). Don Vincenzo vivrà la sua malattia, da vescovo di Belluno, con questo spirito. E vorrà, come ultimo gesto e segno di quell’amore del «pastore per le sue pecore», ricevere i suoi sacerdoti per pregare con loro e ricevere la loro benedizione.
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L’ecumenismo dopo Sibiu
A Chianciano la 45a sessione del Segretariato attività ecumeniche
Amilcare Conti
«La Voce»
La tavola rotonda che si è svolta a Chianciano mercoledì 30 luglio sera ha visto la partecipazione dell’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Giuseppe Chiaretti insieme all’arcipresbitero ortodosso romeno di Milano Traian Valdman e alla pastora valdese Letizia Tomassone. Ai tre relatori è stato affidato il compito di tracciare un quadro su “l’ecumenismo in Italia dopo Sibiu”, cioè dopo la grande assemblea ecumenica europea, la terza in ordine di tempo, dopo quella di Basilea del 1989 e quella di Graz del 1997, svoltasi nel settembre 2007 nell’antica città della Romania, Sibiu.
L’incontro, moderato da Mario Gnocchi, presidente nazionale del Sae, ha messo in luce ancora una volta le diverse sensibilità dei cristiani e il differente modo di approcciare la questione ecumenica. Mons. Chiaretti, che ha parlato per primo, ha cercato di definire i pregi e i limiti di Sibiu: “una grande assemblea di credenti”, ma con un enorme handicap: “l’ostinazione a riflettere sull’ecumenismo in un’ottica ancora troppo ecclesiocentrica e non cristocentrica, come dovrebbe essere”. Ci si attarda cioè ad anteporre le visioni particolari e tradizionali delle singole Chiese, senza cercare di compiere passi avanti significativi: parlare finalmente di Cristo, del kerigma cristiano: la nascita, la morte e la risurrezione del Signore, fonte di salvezza per tutti gli uomini. Visioni pastorali e tradizioni teologiche, oggi ammantate anche di ideologismo, impediscono quel disegno comune di unità tanto necessaria per una “nuova”, “significativa” evangelizzazione. Alcuni vescovi, proprio a Sibiu, hanno denunciato, con non poco sgomento, che ormai in alcune zone d’Europa quelli che si dichiarano cristiani sono appena il 2%. Di fronte a quella che, citando alcuni sociologi, Chiaretti ha definito una “società liquida”, senza più valori e punti di riferimento, compito dei cristiani di qualsiasi denominazione dovrebbe essere quello di ri-annunciare il Vangelo, senza rimanere invischiati nelle pastoie politico-teologiche o addirittura solo ideologiche. A tal proposito l’Arcivescovo di Perugia ha citato l’appello dei giovani partecipanti all’assemblea di Sibiu: “le Chiese devono smettere di competere tra di loro, impegnandosi invece a vivere il Vangelo”. Ha poi concluso con un appello alla riscoperta dei valori proposti dal Vangelo, che producono nuovi “stili di vita”, primo fra tutti quello della “sobrietà” sempre finalizzato alla “carità” verso il prossimo e verso l’intera società: “salvaguardia del creato”.
Letizia Tomassone ha definito l’assemblea di Sibiu un “evento provocatorio” sia in positivo che in negativo. In essa per la prima volta gli evangelici italiani si sono presentati con una delegazione unitaria e hanno potuto condividere momenti di dialogo e di preghiera con altri fratelli nella fede. Sibiu però, agli occhi della Tomassone, si è rivelata un’assemblea troppo “verticistica”, con poco spazio per gli interventi e le riflessioni della “base”. Ne sono venute comunque indicazioni importanti per le singole Chiese: “l’impegno per la giustizia sociale, per la pace e la condanna di tutte le guerre, la salvaguardia del creato”. Lasciando poi il tema proposto per la serata, la pastora valdese ha lamentato gli “attacchi del Vaticano” (cardinale Walter Kasper) contro i vescovi anglicani che stanno per decidere in modo definitivo l’ammissione delle donne all’ordine dell’episcopato. Altra lamentazione: in Italia, sul tema ecumenico, si conoscono, forse, i documenti del Concilio Vaticano II, ma si ignora tutto il “processo ecumenico” che c’è stato dopo e che ha portato a risultati talvolta sorprendenti, come l’intesa sui “matrimoni misti cattolico-valdesi”. Si ignora così il lavoro tenace di tante persone e lo sforzo di riflessione e di adattamento delle Chiese. La pastora ha parlato poi dei “valori non negoziabili”, arrivando a dire che ormai sono anche “non più discutibili”, cioè di essi non si può neanche parlare. Non solo le teologie ma anche i “gruppi sociali” sono portatori di valori, che sovente sfidano o contrastano quelli tradizionali. Il pericolo è far scaturire i valori dalla natura; ormai nella società ci sono molte opzioni etiche che vanno considerate. In un’ottica di fraterno riavvicinamento, almeno tra le confessioni evangeliche, la Tomassone ha giudicato molto positiva la cosiddetta “concordia di Leuenberg”: la possibilità per i fedeli delle diverse confessioni di partecipare alla “santa cena” e di fare la comunione, superando diffidenze e condanne, retaggio dei secoli passati. La validità dell’intercomunione è stata respinta decisamente dall’ortodosso Valdeman Traian. Anzi, il religioso romeno ha ricordato che il Santo Sinodo di Bucarest ha vietato agli ortodossi romeni di accostarsi all’eucaristia celebrata dalle altre Chiese. Maldestramente ha poi definito “merende”, certe “sante cene”. Il che ha fatto arrabbiare qualcuno dei presenti. Traian ha toccato una questione di grande attualità: i flussi migratori dall’Europa dell’Est verso i paesi occidentali impongono una visione realistica e quotidiana dell’ecumenismo. I romeni in Italia sono circa un milione, quasi trentamila nella provincia di Perugia, per tutti loro c’è la necessità di un’assistenza pastorale. La Chiesa romena è grata alle diocesi italiane per aver messo a loro disposizione molti luoghi di culto, ma non gradisce gli inviti a partecipare ai riti cattolici: il grande timore è il proselitismo. La visione “ecclesiocentrica”, lamentata da mons. Chiaretti, è apparsa evidente per tutta la serata. Gli sforzi per superare i particolarismi sono tenui e la diffidenza tra le Chiese, purtroppo, non è affatto diminuita.
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Il monaco simbolo dell’ecumenismo spirituale
Intervista con il cardinale Kasper a tre anni dalla morte di fratel Roger
«L’Osservatore Romano» (15 agosto 2008)
Sono trascorsi tre anni dalla tragica morte di fratel Roger. Lei stesso è andato a presiedere le sue esequie. Chi era per lei?
La sua morte mi ha molto commosso. Mi trovavo a Colonia per la Giornata mondiale della gioventù, quando abbiamo saputo della scomparsa del priore di Taizé, vittima di un atto di violenza. La sua morte mi ricordava delle parole del profeta Isaia sul Servo del Signore: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori” (53, 7). Durante tutta la sua vita, fratel Roger ha seguito la via dell’Agnello: con la sua dolcezza e la sua umiltà, con il suo rifiuto per ogni atto di grandezza, con la sua decisione di non dire male di nessuno, con il suo desiderio di portare nel proprio cuore i dolori e le speranze dell’umanità. Poche persone della nostra generazione hanno incarnato con tale trasparenza il volto mite e umile di Gesù Cristo. In un’epoca turbolenta per la Chiesa e per la fede cristiana, fratel Roger era una fonte di speranza riconosciuta da molti, compreso me stesso. Come professore di teologia e poi come vescovo di Rottenburg-Stuttgart, ho sempre incoraggiato dei giovani a fare durante l’estate un breve soggiorno a Taizé. Vedevo quanto quel soggiorno vicino a fratel Roger e alla comunità li aiutasse a meglio conoscere e a vivere la Parola di Dio, nella gioia e nella semplicità. Tutto questo, l’ho sentito ancora di più nel momento di presiedere la liturgia delle sue esequie nella grande chiesa della Riconciliazione a Taizé.
Qual è ai suoi occhi il contributo proprio di fratel Roger e della comunità di Taizé all’ecumenismo?
L’unità dei cristiani era certamente uno dei desideri più profondi del priore di Taizé, proprio come la divisione dei cristiani è stata per lui una vera fonte di dolore e dispiacere. Fratel Roger era un uomo di comunione, che mal sopportava ogni forma di antagonismo o di rivalità tra persone o comunità. Quando parlava dell’unità dei cristiani e dei suoi incontri con rappresentanti di diverse tradizioni cristiane, il suo sguardo e la sua voce facevano capire con quale intensità di carità e speranza egli desiderasse che “tutti siano uno”. La ricerca dell’unità era per lui come un filo conduttore sino nelle decisioni più concrete di ogni giorno: accogliere gioiosamente ogni azione che possa avvicinare dei cristiani di tradizioni differenti, evitare ogni parola o gesto che possa ritardare la loro riconciliazione. Egli praticava questo discernimento con un’attenzione che confinava con la meticolosità. In questa ricerca dell’unità, tuttavia, fratel Roger non era frettoloso o nervoso. Conosceva la pazienza di Dio nella storia della salvezza e nella storia della Chiesa. Mai sarebbe passato ad atti inaccettabili per le Chiese, mai avrebbe invitato dei giovani a dissociarsi dai loro pastori. Piuttosto che alla rapidità dello sviluppo del movimento ecumenico, egli mirava alla sua profondità. Convinto che solo un ecumenismo nutrito della Parola di Dio e della celebrazione dell’Eucaristia, della preghiera e della contemplazione sarebbe capace di riunire i cristiani nell’unità voluta da Gesù. È in questa sfera dell’ecumenismo spirituale che vorrei situare l’importante contributo di fratel Roger e della comunità di Taizé.
Fratel Roger ha spesso descritto il suo cammino ecumenico come una “riconciliazione interiore della fede delle sue origini con il mistero della fede cattolica, senza rottura di comunione con chicchessia”. Questo percorso non appartiene alle categorie abituali. Dopo la sua morte, la comunità di Taizé ha smentito le voci di una conversione segreta al cattolicesimo. Queste voci erano nate, tra l’altro, perché si era visto fratel Roger ricevere la comunione dalle mani del cardinale Ratzinger durante i funerali di Papa Giovanni Paolo II. Che pensare dell’espressione secondo la quale fratel Roger sarebbe diventato “formalmente” cattolico?
Nato in una famiglia riformata, Roger Schutz aveva fatto degli studi di teologia ed era diventato pastore in quella stessa tradizione. Quando parlava della “fede delle sue origini”, egli si riferiva a quel bell’insieme di catechesi, devozione, formazione teologica e testimonianza cristiana ricevuto nella tradizione riformata. Egli condivideva quel patrimonio con tutti i suoi fratelli e sorelle d’appartenenza protestante, con i quali si è sempre sentito profondamente legato. Tuttavia, sin dagli anni in cui era un giovane pastore, Roger ha pure cercato di nutrire la sua fede e la sua vita spirituale alle fonti di altre tradizioni cristiane, oltrepassando in questo modo certi limiti confessionali. Il suo desiderio di seguire una vocazione monastica e con questa intenzione di fondare una nuova comunità con cristiani riformati la diceva già lunga su questa ricerca. Lungo gli anni, la fede del priore di Taizé si è progressivamente arricchita del patrimonio di fede della Chiesa cattolica. Secondo la sua stessa testimonianza, è proprio riferendosi al mistero della fede cattolica che egli comprendeva certi dati della fede, come il ruolo della Vergine Maria nella storia della salvezza, la presenza reale di Cristo nei doni eucaristici e il ministero apostolico nella Chiesa, compreso anche il ministero d’unità esercitato dal vescovo di Roma. In risposta, la Chiesa cattolica aveva accettato che egli comunicasse all’eucaristia, come faceva ogni mattina nella grande chiesa di Taizé. Fratel Roger ha pure ricevuto la comunione a più riprese dalle mani di Papa Giovanni Paolo II, che aveva legami d’amicizia con lui sin dai tempi del Concilio Vaticano ii e che conosceva bene il suo cammino nella fede cattolica. In questo senso, non c’era nulla di segreto o di nascosto nell’atteggiamento della Chiesa cattolica, né a Taizé né a Roma. Al momento dei funerali di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger non ha fatto che ripetere ciò che si faceva già prima nella basilica di San Pietro, sin dal tempo del Papa defunto. Non c’era niente di nuovo o di premeditato nel gesto del cardinale. Rivolgendosi a Giovanni Paolo II a San Pietro, durante l’incontro europeo dei giovani a Roma nel 1980, il priore di Taizé descrisse il proprio cammino e la sua identità di cristiano con queste parole: “Ho trovato la mia identità di cristiano riconciliando in me stesso la fede delle mie origini con il mistero della fede cattolica, senza rottura di comunione con chicchessia”. In effetti, fratel Roger non aveva mai voluto rompere “con chicchessia”, per dei motivi che erano essenzialmente legati al suo desiderio di unione e alla vocazione ecumenica della comunità di Taizé. Per questa ragione, egli preferiva non impiegare certi termini come “conversione” o adesione “formale” per qualificare la sua comunione con la Chiesa cattolica. Nella sua coscienza, egli era entrato nel mistero della fede cattolica come qualcuno che cresce, senza dover “abbandonare” o “rompere” con quanto aveva ricevuto e vissuto prima. Si potrebbe discutere a lungo sul senso di certi termini teologici o canonici. Per rispetto del cammino nella fede del priore di Taizé, tuttavia, sarebbe preferibile non applicare nei suoi riguardi delle categorie che egli stesso giudicava inappropriate alla sua esperienza e che del resto la Chiesa cattolica non ha mai voluto imporgli. Lì ancora, le parole di fratel Roger stesso dovrebbero bastarci.
Lei vede dei legami tra la vocazione ecumenica di Taizé e il pellegrinaggio di decine di migliaia di giovani in quel villaggio della Borgogna? A suo avviso, i giovani sono sensibili all’unità visibile dei cristiani?
Secondo me, il fatto che ogni anno migliaia di giovani trovino ancora la strada verso la piccola collina di Taizé è veramente un dono dello Spirito Santo alla Chiesa d’oggi. Per molti di loro Taizé rappresenta il primo e principale luogo dove possono incontrare dei giovani di altre Chiese e comunità ecclesiali. Sono contento di vedere che i giovani che riempiono ogni estate le tende e i tendoni di Taizé vengono da diversi Paesi d’Europa occidentale e orientale (alcuni da altri continenti), appartengono a comunità di tradizione protestante, cattolica e ortodossa, e sono spesso accompagnati dai loro preti o pastori. Numerosi giovani che arrivano a Taizé provengono da Paesi che hanno conosciuto la guerra civile o violenti conflitti interni, spesso in un passato ancora recente. Altri provengono da regioni che hanno sofferto per diversi decenni sotto il giogo di un’ideologia materialista. Altri ancora – e sono forse la maggioranza – vivono in società profondamente segnate dalla secolarizzazione e l’indifferenza religiosa. A Taizé, nei momenti di preghiera e condivisione biblica, essi riscoprono il dono di comunione e d’amicizia che solo il Vangelo di Gesù Cristo può offrire. Ascoltando la Parola di Dio, riscoprono anche la ricchezza unica che è stata donata loro con il sacramento del battesimo. Sì, credo che molti giovani si rendano conto della vera posta in gioco dell’unità dei cristiani. Essi sanno quanto il fardello delle divisioni possa ancora pesare sulla testimonianza dei cristiani e sulla costruzione di una nuova società. A Taizé essi trovano come una “parabola di comunità” che aiuta a superare le fratture del passato e a guardare un avvenire di comunione e amicizia. Di ritorno a casa, questa esperienza li aiuta a creare dei gruppi di preghiera e condivisione nel loro ambiente di vita, per nutrire questo desiderio dell’unità.
Prima di presiedere il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, lei è stato vescovo di Rottenburg-Stuttgart e a questo titolo ha accolto nel 1996 un incontro europeo di giovani animato dalla comunità di Taizé. Che cosa apportano questi incontri di giovani alla vita delle Chiese?
Quell’incontro è stato in effetti un momento di grandissima gioia e di profonda intensità spirituale per la diocesi e soprattutto per le parrocchie che hanno accolto i giovani provenienti da diversi Paesi. Questi incontri mi sembrano estremamente importanti per la vita della Chiesa. Molti giovani, come dicevo, vivono in società secolarizzate. Essi trovano difficilmente dei compagni di strada nella fede e nella vita cristiana. Gli spazi dove approfondire e celebrare la fede, nella gioia e la serenità, sono rari. Le Chiese locali qualche volta fanno fatica ad accompagnare bene i giovani nel loro cammino spirituale. Ed è qui che i grandi incontri come quelli organizzati dalla comunità di Taizé rispondono a un vero bisogno pastorale. La vita cristiana ha certo bisogno di silenzio e solitudine, come diceva Gesù (“Chiudi la porta, prega il Padre tuo, egli che vede nel segreto”, Matteo, 6, 6). Però essa ha bisogno anche di condivisione, d’incontro e scambio. La vita cristiana non si vive nell’isolamento, al contrario. Per mezzo del battesimo noi apparteniamo al medesimo e unico corpo del Cristo risorto. Lo Spirito è l’anima e il soffio che anima questo corpo, che lo fa crescere in santità. Del resto, i vangeli parlano regolarmente di una grande folla di persone che erano venute, spesso da molto lontano, per vedere e ascoltare Gesù, e per essere guarite da lui. I grandi incontri di oggi si iscrivono in quella stessa dinamica. Essi permettono ai giovani di cogliere meglio il mistero della Chiesa come comunione, di ascoltare insieme la parola di Gesù e fidarsi di lui.
Giovanni XXIII ha definito Taizé “piccola primavera”. Da parte sua, fratel Roger diceva che Papa Roncalli era l’uomo che più lo aveva segnato. Secondo lei, perché il Pontefice che ha avuto l’intuizione del Concilio Vaticano ii e il fondatore di Taizé si apprezzavano così tanto?
Ogni volta che incontravo fratel Roger, mi parlava molto della sua amicizia prima con Giovanni XXIII, poi con Paolo VI e Giovanni Paolo II. Era sempre con gratitudine e grande gioia che mi raccontava i numerosi incontri e conversazioni che aveva avuto con loro lungo gli anni. Da una parte, il priore di Taizé si sentiva molto vicino ai vescovi di Roma, nella loro preoccupazione di condurre la Chiesa di Cristo sulle vie del rinnovamento spirituale, dell’unità dei cristiani, del servizio ai poveri, della testimonianza del Vangelo. Dall’altra, egli si sapeva profondamente compreso e appoggiato da loro nel suo personale cammino spirituale e nell’orientamento che prendeva la giovane comunità di Taizé. La coscienza di agire in armonia con il pensiero del vescovo di Roma era per lui come una bussola in tutte le sue azioni. Mai egli avrebbe intrapreso un’iniziativa che sapeva essere contro l’avviso o la volontà del Papa. Del resto, una medesima relazione di fiducia prosegue oggi con Benedetto XVI che ha pronunciato parole molto toccanti alla morte del fondatore di Taizé, e che riceve ogni anno fratel Alois in udienza privata. Da dove veniva questa stima reciproca tra fratel Roger e i vescovi di Roma che si sono succeduti? Essa si radica certamente nella dimensione umana, nelle ricche personalità degli uomini coinvolti. In definitiva, direi che veniva dallo Spirito Santo che è coerente in ciò che ispira nello stesso momento a persone diverse, per il bene dell’unica Chiesa di Cristo. Quando parla lo Spirito, tutti comprendono lo stesso messaggio, ciascuno nella propria lingua. Il vero operatore della comprensione e della fraternità tra discepoli del Cristo è lui, lo Spirito di comunione.
Lei conosce bene fratel Alois, il successore di fratel Roger. Come vede l’avvenire della comunità di Taizé?
Anche se l’avevo già incontrato nel passato, è soprattutto dopo la morte di fratel Roger che ho imparato a conoscere meglio fratel Alois. Qualche anno prima il priore mi aveva confidato che tutto era previsto per la sua successione, il giorno in cui si sarebbe rivelata necessaria. Era contento della prospettiva che fratel Alois gli avrebbe dato il cambio. Chi avrebbe potuto immaginare che questa successione si sarebbe dovuta effettuare in una sola notte, dopo un atto di violenza inaudita? Ciò che da allora mi stupisce è la grande continuità nella vita della comunità di Taizé e nell’accoglienza dei giovani. La liturgia, la preghiera e l’ospitalità continuano con il medesimo spirito, come un canto che non è mai stato interrotto. Questo la dice lunga, non solo sulla persona del nuovo priore, ma anche e soprattutto sulla maturità umana e spirituale di tutta la comunità di Taizé. È la comunità nel suo insieme che ha ereditato il carisma di fratel Roger e del quale continua a vivere e irradiare. Conoscendo le persone, ho pienamente fiducia nell’avvenire della comunità di Taizé e nel suo impegno per l’unità dei cristiani. Questa fiducia mi viene anche dallo Spirito Santo che non suscita dei carismi per abbandonarli alla prima occasione. Lo Spirito di Dio, che è sempre nuovo, opera nella continuità di una vocazione e di una missione. È lui che aiuterà la comunità a vivere e a sviluppare la sua vocazione, nella fedeltà all’esempio che fratel Roger le ha lasciato. Le generazioni passano, il carisma resta, poiché esso è dono e opera dello Spirito. E voglio ripetere a fratel Alois e a tutta la comunità di Taizé la mia grande stima per la loro amicizia, la loro vita di preghiera e il loro desiderio di unità. Grazie a essi, il dolce volto di fratel Roger ci rimane familiare.
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I quattro momenti della “lectio divina”
Enzo Bianchi
«L’Osservatore Romano» (28 otttobre 2008)
«È necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la Parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» (Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 39). La lectio divina è un atto di lettura della Bibbia che diviene ascolto della Parola di Dio. Suo fondamento teologico è la non coincidenza tra Parola di Dio (realtà rivelata pienamente nel Figlio Gesù Cristo) e Scrittura (che contiene la Parola senza esaurirla). Questa «lettura meditata e orante della Parola di Dio» (Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 47), chiamata thèia anàgnosis (lectio divina) da Origene, indica l’applicazione quotidiana alla Scrittura per meditarla, pregarla e metterla in pratica. Finalizzata alla conoscenza di Gesù Cristo (Dei Verbum, 25), essa è una lettura individuale o comunitaria della Scrittura che si svolge, secondo la formulazione di Guigo il Certosino (XII secolo) in quattro momenti: lectio, meditatio, oratio e contemplatio.
Preceduto dall’invocazione dello Spirito, il primo movimento della lectio divina è la lettura. Si legge la Bibbia nella fede che in essa Dio ci viene incontro ed entra in relazione con noi. La lectio divina si esercita sulla Scrittura e non va confusa con un pio esercizio di lettura spirituale di un’opera di edificazione. Criteri pratici di lettura sono: o la lettura continua di un libro biblico oppure i testi (o il solo Vangelo) della liturgia del giorno. Occorre evitare il dilettantismo di chi sceglie soggettivamente i testi. È bene leggere il testo più volte e non solo con gli occhi, ma ad alta voce, per entrare realmente in quell’ascolto che, in quanto accoglienza di Colui che parla, è già preghiera. Chi fatica a leggere può ricopiare il testo scrivendolo. Chi conosce le lingue in cui la Bibbia è stata scritta troverà giovamento dal ricorso al testo originale. Comunque una buona traduzione, o il confronto con più traduzioni, aiuta a cogliere meglio il senso del testo.
Per introdurre persone semplici alla lectio divina è bene stabilire una gerarchia di libri da affrontare progressivamente accordando un primato ai vangeli che «tra tutte le Scritture (…) meritatamente eccellono» (Dei Verbum, 18). La struttura del Vangelo secondo Marco, basata su due parti rispondenti alle domande «Chi è Gesù? Come seguirlo?», è un’eccellente iniziazione alla lectio divina. La meditazione non è un’autoanalisi psicologizzante: la lectio divina cerca il volto del Signore liberando il credente da atteggiamenti autocentrati. La meditazione è approfondimento del senso della pagina biblica, dunque «studio», sforzo per superare la distanza culturale che ci separa dal testo. Questo momento è importante per rispettare il testo e non «falsificare la Parola di Dio» (Seconda lettera ai Corinzi, 4, 2). Nella meditazione è utile il ricorso alle note della Bibbia, alla consultazione dei passi paralleli, al confronto sinottico se si sta leggendo un vangelo, a una concordanza per allargare il significato del testo e per «leggere la Bibbia con la Bibbia». Anche strumenti come un vocabolario biblico o un commentario esegetico possono essere un valido aiuto per comprendere meglio il testo. Testi patristici ed eucologici possono fornire utili chiavi ermeneutiche. Tuttavia questo momento è finalizzato all’ascolto di una parola rivolta «a me oggi». Il fine non è l’erudizione ma la comunione con il Signore.
Nella meditazione si fa emergere la punta teologica del testo, il suo messaggio centrale, o comunque un suo aspetto che in quella concreta lectio divina si rivela «parlante». Allora con l’applicazione del testo a sé e di sé al testo inizia il dialogo e l’interazione tra il credente e la parola ascoltata. Il principio espresso dal filologo luterano Johann Albrecht Bengel — te totum applica ad textum, rem totam applica ad te — consente il passaggio alla preghiera. Con la preghiera la parola uscita da Dio ritorna a Dio in forma di ringraziamento, lode, supplica, intercessione (Isaia, 55, 10-11). La lectio divina si apre al «colloquio tra Dio e l’uomo» (Dei Verbum, 25) e diviene ingresso nell’alleanza. È lo Spirito che guida questo momento, ma a ispirare la preghiera è anche la Parola di Dio ascoltata: la lectio divina plasma una preghiera non devozionale, ma biblica ed essenziale. «La Parola di Dio cresce con chi la legge» (Gregorio Magno, In Hiezechielem I, 7, 8): se il testo biblico è immutabile, il lettore muta, cresce, e l’assiduità con le Scritture gli fa vivere i passaggi della vita come relazione con il Signore. I modi della oratio sono quelli che lo Spirito suscita: lacrime di gioia o di compunzione; silenzio adorante; intercessione per persone sofferenti evocate dal testo; lode e ringraziamento. A volte si resta nell’aridità e la preghiera non riesce a sgorgare. Allora si tratta di presentare il corpo atono come preghiera muta al Signore. Anche questi momenti concorrono a fare del credente un uomo di ascolto, sensibile alla presenza del Signore e capace di contemplazione.
Il credente sperimenta la «gioia ineffabile» (Prima lettera di Pietro, 1, 8) dell’inabitazione della presenza del Signore in lui. Bernardo ha parlato di tale esperienza successiva all’ascolto della Parola di Dio nei termini di «visita del Verbo»: «Confesso che il Verbo mi ha visitato, e parecchie volte. Sebbene spesso sia entrato in me, io non me ne sono neppure accorto. Sentivo che era presente, ricordo che era venuto; a volte ho potuto presentire la sua visita, ma non sentirla; e neppure sentivo il suo andarsene, poiché di dove sia entrato in me, o dove se ne sia andato lasciandomi di nuovo, e per dove sia entrato o uscito, anche ora confesso di ignorarlo, secondo quanto è detto: “Non sai di dove venga e dove vada”» (Sul Cantico dei Cantici, LXXIV, 5).
La contemplazione non allude a «visioni» o a esperienze mistiche particolari, ma indica la progressiva conformazione dello sguardo dell’uomo a quello divino; indica l’acquisizione del dono dello Spirito che diviene nell’uomo spirito di ringraziamento e di compassione, di discernimento e di makrothymía. La contemplatio non è un momento in cui bisogna fare qualcosa di particolarmente spirituale, ma è quotidiano allenamento ad assumere lo sguardo di Dio su di noi e sulla realtà, purificazione dello sguardo del cuore che arriva a discernere la terra, il mondo e gli uomini come templum, dimora di Dio.
La lectio divina plasma un uomo eucaristico, capace di gratitudine e di gratuità, di carità e di discernimento della presenza del Signore nelle diverse situazioni dell’esistenza. Iniziata con l’invocazione dello Spirito, la lectio divina sfocia nella contemplazione. Essa tende all’eucaristia, svelando il suo intrinseco legame con la liturgia: «La lectio divina, nella quale la Parola di Dio è letta e meditata per trasformarsi in preghiera, è radicata nella celebrazione liturgica» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1177).
Il dinamismo della lectio divina rappresenta il nucleo di tutta quanta la vita spirituale. Alla luce di questo, comprendiamo l’invito pressante di Benedetto XVI a riprendere e a diffondere la pratica della lectio divina per un rinnovamento della vita ecclesiale: «Vorrei soprattutto evocare e raccomandare l’antica tradizione della lectio divina… Questa prassi, se efficacemente promossa, apporterà alla Chiesa — ne sono convinto — una nuova primavera spirituale. La pastorale biblica deve dunque insistere particolarmente sulla lectio divina e incoraggiarla grazie a metodi nuovi, elaborati con cura e al passo con i nostri tempi» (Messaggio rivolto ai partecipanti al Congresso internazionale sulla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa, Roma, 14-18 settembre 2005).
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Il commento di mons. Paglia alla decisione dell’Assemblea rabbinica di sospendere la Giornata per il dialogo tra ebrei e cattolici. Intervista di Amedeo Lomonaco
«Radio Vaticana»
La Giornata per il dialogo tra ebrei e cattolici, in programma il prossimo 17 gennaio, è stata sospesa e al suo posto verrà celebrata la Giornata dell’ebraismo. Lo ha annunciato il presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, Giuseppe Laras. La decisione – ha spiegato il rabbino – è motivata dalla questione della preghiera per gli ebrei nella Liturgia del Venerdì Santo, modificata da Benedetto XVI in seguito alle obiezioni sollevate dopo la pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. Nella nuova formulazione si invoca Dio perché “illumini” i cuori degli ebrei, “perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini”. Commenta la decisione di sospendere la Giornata del dialogo mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Terni-Narni-Amelia e presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Conferenza episcopale italiana.
R.– Ovviamente ha addolorato questa decisione presa dall’Assemblea dei rabbini e che Laras poi ha comunicato. In verità, è da alcuni mesi che io sono in contatto con Laras proprio per questo problema, per le questioni sorte dopo l’Oremus del Venerdì Santo, nella formula del Messale di San Pio V. Quelle parole che il rabbino Laras, tra l’altro, ricorda nella sua nota invocazione “Dio illumini i loro cuori, affinché riconoscano Gesù Cristo, Salvatore di tutti gli uomini”, questa affermazione è un’invocazione che mette nelle mani del Signore il come e il quando, in prospettiva escatologica, questo possa avvenire. E in questo senso a mio avviso la questione è più che risolta. Posso comprendere le perplessità: questa decisione è dolorosa, ma neppure la enfatizzerei più di tanto. Il rabbino, infatti, nella nota ovviamente si augura che il cammino del dialogo riprenda e continui.
D.– La decisione di sospendere la Giornata del dialogo è anche un’ulteriore occasione di riflessione…
R. – Certo. La decisione di sospendere quella giornata è un segno, perché si prenda occasione per approfondire di più. Ed è questo anche il motivo per cui noi ovviamente continueremo a celebrare anche quest’anno la Giornata di riflessione ebraico-cristiana il 17 gennaio. Si tratta di una giornata che quest’anno è un po’ ferita, ma è una ferita che ci auguriamo aiuti ad approfondire meglio l’indispensabile raccordo e rapporto tra cristiani ed ebrei.
D.– Quali parole intende rivolgere al rabbino Giuseppe Laras e all’Assemblea rabbinica italiana per chiedere di rivalutare, se possibile, la decisione di sospendere quest’anno la Giornata di riflessione ebraico-cattolica?
R.– Persistono purtroppo ancora preoccupanti focolai di antisemitismo e questo chiede un’attenta vigilanza: non solo non dobbiamo allentare i nostri rapporti, ma stringerli ancora di più per combattere in radice ogni seme che possa favorire tali atteggiamenti. In questo senso, vorrei dire loro: “Cari amici ebrei, non possiamo perderci dietro a questi problemi. C’è un fronte che deve continuare a vederci molto stretti, molto uniti per combattere la comune battaglia contro qualsiasi forma di antisemitismo e soprattutto per allargare quel comune patrimonio teologico-morale per aver portato al mondo intero il monoteismo. Parlare di Dio, parlare della legge morale, parlare di comportamenti santi e parlare anche di una tensione escatologica verso la pienezza della manifestazione di Dio, credo sia un compito assolutamente prioritario e straordinario.
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«Sophia»: adesso a Loppiano è nata anche l’Università
di Riccardo Bigi
«Toscana Oggi»
Un centro accademico che, «promuovendo un autentico pensiero cristiano capace di coniugare fede e ragione, favorisca una visione più ampia e integrata del sapere tesa al dialogo con le altre religioni e culture, e alla crescita intellettuale e interiore delle giovani generazioni». È questo l’auspicio del Papa Benedetto XVI per l’Istituto Universitario Sophia, la nuova università che va ad arricchire le tante opere culturali della cittadella internazionale dei Focolari a Loppiano. Il telegramma del Papa è andato ad aggiungersi alle tantissime voci che lunedì scorso hanno voluto festeggiare la nascita di questa nuova istituzione culturale. Circa duemila persone tra cui rettori e personalità accademiche di vari Paesi: dall’India agli Stati Uniti, dalla Tailandia al Kenya, insieme alle autorità civili e religiose e a rappresentanti di ebraismo, islam, induismo e buddismo.
La nuova università ospita al momento una quarantina di studenti provenienti da diversi paesi del mondo, che seguiranno corsi biennali per conseguire una laurea specialistica. Ma dietro questa iniziativa c’è una proposta estremamente significativa. La nascita di Sophia, ha evidenziato la presidente dei Focolari, Maria Voce, «è una tappa particolarmente attesa. Rappresenta la realizzazione di un grande sogno che Chiara ha custodito ardentemente in cuore fin dagli anni ’60». Trasformare quindi il «carisma dell’unità», che Chiara Lubich ha ricevuto e sulla cui base ha fondato il Movimento dei Focolari, in una vera e propria scuola di pensiero. «L’istituto universitario Sophia – ha sottolineato mons. Piero Coda, Preside di questo centro accademico – è erede e interprete degli ideali di Chiara. E non è un caso – ha aggiunto – che Sophia nasca qui, in terra di Toscana, alle porte di Firenze, quasi a voler offrire il suo specifico contributo alla vocazione cosmopolita di questa terra e di questa città che si sono fatte pioniere, in questi ultimi decenni, dell’incontro tra i popoli e della costruzione della pace, come ci testimonia l’esperienza di Giorgio La Pira».
All’inaugurazione erano presenti anche il vescovo di Fiesole Luciano Giovannetti e l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori, che è anche Gran Cancelliere della nuova università. «Una nuova istituzione universitaria di chiara ispirazione cristiana – ha affermato Betori nel suo saluto – rappresenta un’importante opportunità sia per chi vi prende parte sia per la società italiana in generale. L’intuizione del progetto culturale, che rende unica e significativa l’esperienza ecclesiale in Italia, vuole proprio sottolineare come la crescita della cultura cristiana non sia qualcosa che riguarda i cristiani solamente, ma che si rivolge a tutti. Questo testimonia la convinzione che la cultura, quando è veramente tale, rappresenta una crescita per la persona umana.
L’inaugurazione è proseguita con una tavola rotonda in cui a più voci, dal mondo della cultura e della scienza, è stata espressa la speranza che nasce da questa nuova iniziativa culturale caratterizzata dall’incontro tra studio e vita. Sono intervenuti Anthony Cernera degli Usa, Presidente della Federazione internazionale delle Università cattoliche, il fisico Ugo Amaldi del Cern di Ginevra, lo scrittore e giornalista Sergio Zavoli. A concludere l’incontro, le voci dei primi protagonisti, i giovani studenti: «Siamo coscienti – ha detto uno di loro – che sperimentando questo nuovo umanesimo fiorito dal Vangelo, potremo essere espressione di un nuovo modo di pensare a servizio delle attese dell’umanità».
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