È il 25 dicembre 2023, il giorno di Natale. Nella fotografia mentale che si imprime nella testa di ognuno di noi, l’immagine che ci appare in primo piano è quella della nostra famiglia, finalmente riunita e felice attorno ad una tavola imbandita. Quello stesso giorno a Zuara, a ridosso delle coste libiche, negli attimi in cui noi ridevamo scandendo il tempo tra un bicchiere di vino e un regalo da scartare, Dylan (nome di fantasia per motivi di privacy) stava nuotando tra le onde furiose del mare, nel disperato tentativo di salire su un barcone con i suoi bambini e sua moglie. Con l’acqua alla gola e le braccia alzate al cielo, quasi come in una preghiera, teneva alti i suoi figli di due e quattro anni, per proteggerli dal mare in tempesta e condurli verso la barca. Dopo una faticosa lotta contro la corrente, Dylan riuscì a raggiungere il gommone insieme ai suoi bambini, ma sua moglie non era con loro. La cercò disperatamente con lo sguardo e la vide combattere in lontananza contro le onde che cercavano di inghiottirla. Mentre la barca stava scivolando via, Dylan pensò di tuffarsi nuovamente in mare per soccorrerla, ma nel frenetico caos del momento fu bloccato dagli altri migranti che lo misero di fronte ad una cruda realtà: se fosse sceso ad aiutarla, nessuno dei due genitori sarebbe tornato sul gommone e i bambini sarebbero finiti in balìa di loro stessi. In pochi istanti, carichi di straziante dolore, doveva scegliere se salvare la vita di sua moglie o rimanere con i suoi figli, intraprendendo un viaggio che sarebbe durato giorni, con nessuna certezza di sopravvivenza. Scelse, con enorme sofferenza, di proseguire il cammino.
Mentre Dylan, con la voce rotta dalla commozione, mi raccontava questa parte della sua storia, tra le urla dei suoi bambini e il doloroso ricordo di quegli attimi terribili, nella sua stanza a Villa Pettini di Montevarchi – dove la Fondazione Giovanni Paolo II accoglie e sostiene gli immigrati che arrivano in Italia – mi rimbombava nella mente una domanda: perché partire per un viaggio così pericoloso mettendo a rischio non solo la propria vita ma anche quella dei propri figli? La risposta era racchiusa nella storia della sua vita.
Dylan nasce in Nigeria alla fine degli anni ’80 e fin da piccolo si dà da fare, lavorando per racimolare un po’ di soldi e studiando per costruirsi un futuro migliore di quello che lo avrebbe aspettato se avesse scelto di condurre una vita di strada. Nella sua terra natale la vita era resa difficile a causa di gruppi terroristici che seminavano paura e morte. “Dopo aver cambiato diverse città e lavori – racconta Dylan – per fuggire da quella realtà dalla quale cercavo di tenermi alla larga, sono stato rintracciato da alcuni componenti dei gruppi nei quali mi ero rifiutato di entrare e, dopo il mio ennesimo rifiuto, sono stato portato in un bosco e picchiato a sangue. Lì ho capito che avrei dovuto lasciare definitivamente la mia terra natale, e con questa anche mia mamma.” Nonostante la partenza forzata, Dylan, poco più che ventenne, spera di iniziare un nuovo capitolo della sua vita, partendo alla volta della Libia. Durante il viaggio, però, viene rapito e segregato in una stanza, insieme ad altri uomini, per circa tre mesi, rivivendo l’incubo delle torture e dei soprusi. A questo momento difficile, si era sommata la difficoltà dell’attraversamento del deserto in una situazione estremamente precaria. Quando finalmente giunge in Libia (terra nella quale è rimasto per dieci anni, fino al suo arrivo in Italia), trova lavoro come meccanico. Nonostante lo stipendio fosse basso, era felice del suo lavoro e soprattutto entusiasta di imparare un nuovo mestiere. Dopo le tante vessazioni del passato sembrava che la vita per Dylan iniziasse a girare per il verso giusto. Presto conosce anche sua moglie, una giovane donna di origine nigeriana che lavorava come parrucchiera. I due vanno a convivere e iniziano a fare progetti per il futuro, entrambi con il sogno di mettersi in proprio.
Nel 2014 però, in Libia, scoppia la seconda guerra civile, un sanguinoso conflitto che durerà fino al 2020 e che a più riprese metterà Dylan e sua moglie con le spalle al muro. A causa della guerra i due perdono più volte il lavoro (in quanto le officine e i saloni in cui lavoravano venivano sistematicamente distrutti). “In quel periodo – continua Dylan – vivevamo una situazione davvero complicata a causa della guerra, dell’assenza di lavoro e dei ripetuti furti subìti in casa nostra. Ho iniziato a non dormire più la notte, avevo sempre paura che qualcuno sfondasse una finestra o la porta di casa per derubarci delle poche cose che ci erano rimaste. Quando sono giunto qui a Villa Pettini, la porta della mia stanza non si chiudeva a chiave e ho dato di matto. Poi mi hanno spiegato che non dovevo preoccuparmi e che qui non mi sarebbe accaduto nulla, ma la notte dormo ancora con un occhio chiuso e uno aperto.” Ma torniamo all’esperienza in Libia. Nel 2019 sua moglie era rimasta incinta, e tra le macerie di un paese in guerra è venuta al mondo la loro prima bambina. Dylan non era con lei quando è nata perché l’ospedale di Bengasi, dove vivevano, era stato distrutto dai bombardamenti. Sua moglie, dunque, era dovuta partire per Tripoli, dove c’era l’ospedale più vicino, a circa undici ore di macchina.
Essendo diventati tre, la vita in quel paese stava diventando sempre più difficile, insopportabile e arrivare al termine del giorno sembrava una conquista. Nel 2022, poi, arriva il loro secondo figlio e le responsabilità aumentano sempre di più. Poco tempo prima, inoltre, si era verificato uno degli episodi più difficili della loro vita: dopo essere stati derubati anche di quei pochi soldi che con fatica lui e sua moglie avevano messo da parte negli anni precedenti, senza un lavoro e con una figlia a carico e uno in arrivo, si trovarono costretti a vendere la mobilia della loro casa, per racimolare un po’ di denaro. Presi dallo sconforto e senza più nulla, sia Dylan che sua moglie capirono che dovevano lasciare la Libia. Con la mente sognavano di tornare in Nigeria e riabbracciare le loro famiglie. Ma lì la situazione era ancora troppo pericolosa e quindi, dovevano optare per un’altra soluzione. “Inoltre – aggiunge Dylan – la Nigeria significava volgere ancora lo sguardo al passato e alla sofferenza. Ma ciò che volevamo era guardare avanti e vivere un futuro diverso, migliore. Ecco perché abbiamo deciso di rischiare tutto partendo per l’Italia. Questa terra rappresentava la nostra unica possibilità e il nostro ultimo tentativo per vivere un’esistenza migliore. Sapevamo quanto fosse pericoloso il viaggio, ma eravamo pronti a rischiare di morire pur di non continuare a vivere così.”
Dopo un passato segnato da torture, minacce di morte, negozi in macerie, guerre e fughe dal proprio paese di origine, la consapevolezza di morire in mare (o peggio di veder morire i propri cari) nel disperato tentativo di dare una svolta alla propria vita, risultava comunque una prospettiva migliore che continuare a condurre l’esistenza che stavano trascorrendo. Nell’ottobre del 2023, così, i quattro si mettono in viaggio per Zuara, dove resteranno per circa due mesi, fino al 25 dicembre 2023, in un campo profughi, stipati come sardine in piccole stanze con molti altri migranti. Il giorno di Natale del 2023 non era il giorno adatto per partire per l’Italia perché il mare era troppo mosso. Lo sapevano tutti, ma non avevano scelta. Mentre Dylan e i suoi bambini, però, riuscirono a salire sul gommone, sua moglie rimase in mare, in balìa delle onde. A causa della corrente troppo forte non riuscì a raggiungere a nuoto il barcone e, data la sua inesperienza, Dylan era convinto che sarebbe morta in mare, senza riuscire a tornare a riva. Ad ogni modo l’uomo, nei pochissimi e concitati momenti in cui dovette scegliere se tuffarsi in acqua per trarre in salvo la moglie o rimanere con i suoi figli, prese la difficile decisione di rimanere sul barcone, partendo senza sua moglie, in un viaggio in mare che sarebbe durato circa due giorni. Giorni che sembravano interminabili e dai quali Dylan non pensava ne sarebbero usciti vivi. Durante il viaggio in mare sul gommone, inoltre, alla situazione precaria, al mare in tempesta e alla paura di morire si aggiunse un incidente che vide protagonista Dylan. L’uomo si era bruciato con la benzina, riportando gravi ferite che gli avevano spazzato via definitivamente ogni speranza di potersi trarre in salvo.
Poi, all’improvviso, i migranti iniziarono a gridare. In lontananza avevano avvistato una nave di una ONG (organizzazione non governativa) che dopo averli individuati, li aveva tratti in salvo offrendo loro primaria assistenza sanitaria e mettendo fine a quell’incubo dal quale sembrava impossibile potersi risvegliare. Dylan e i suoi bambini sono arrivati sulle coste italiane il 27 dicembre 2023 e quello stesso giorno sono stati trasferiti a Villa Pettini. La moglie di Dylan è riuscita a salvarsi tornando a nuoto a riva, con la forza della speranza e la felicità di sapere che la sua famiglia era riuscita a partire. Nonostante lei non fosse salita su quel gommone, tornando a nuoto a riva e rimanendo così in Libia, la prima cosa che ha detto a Dylan, quando finalmente ha potuto riascoltare la sua voce, è stata che era felice del fatto che loro tre stessero bene e che ce l’avessero fatta. Per lei, questa, era la cosa più importante.
Quando ho chiesto a Dylan come vedesse il suo futuro, ora che era in salvo con i suoi bambini e impaziente di iniziare una nuova vita, mi ha risposto con una brillante luce negli occhi e un dolce sorriso. La ricchezza più grande alla quale aspira è un lavoro, una piccola casa, e la sua famiglia al sicuro, semplicemente una vita tranquilla. “Questo è sempre stato, è e sarà il sogno più grande di tutta la mia vita – conclude Dylan – e ora so con certezza che finché c’è vita c’è speranza.”
La Fondazione Giovanni Paolo II è una realtà che opera a Villa Pettini, a Montevarchi, e che si occupa di ospitare e agevolare l’integrazione dei migranti in Italia e, in particolare, delle famiglie. Le strutture di accoglienza hanno l’obbiettivo di aiutare queste famiglie nelle questioni burocratiche, nella ricerca attiva di un lavoro e di una casa, ed è per questo che la Fondazione Giovanni Paolo II mette al centro la comunità. Creare una comunità che permetta alle persone accolte di sentirsi parte di un paese e che le aiuti nel percorso di integrazione è uno degli scopi principali attorno ai quali verte il lavoro della Fondazione. La comunità è il cuore pulsante della vita di un paese e i Dylan nel mondo si meritano una carezza dopo i tanti schiaffi subìti nella vita.
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