L’impegno alla riconciliazione unisce i ragazzi del Consiglio del Mediterraneo. Le voci dalla Terra Santa e dal Libano: la guerra, il più grande male
di Giacomo Gambassi
«Signore, fa di me uno strumento della tua pace». Le parole ispirate alle intuizioni di Francesco d’Assisi uniscono le sponde del Mediterraneo. E i suoi giovani. Le ripetono, da una riva all’altra del grande mare, i ragazzi della Terra Santa e dell’Italia, del Libano e del Maghreb, dei Balcani e della Francia, della Grecia e della Spagna. In una piccola, grande preghiera per la pace che grazie al web abbraccia l’intero bacino. A volerla il Consiglio dei giovani del Mediterraneo, il laboratorio di fraternità animato da trentasei ragazzi di diciannove Stati legati al Mare nostrum. Ambasciatori di un Mediterraneo nuovo, riconciliato, ma oggi ancora diviso e segnato dalle ingiusti zie, dallo sfruttamento, dalla povertà, dagli esodi di massa. E dalle guerre. L’ultima, quella riesplosa in Terra Santa. «Il Paese della pace non ha mai visto la pace», racconta Fadi Touma. Ventiquattro anni, una laurea in economia aziendale e marketing, vive a Gerusalemme. Ed è uno dei rappresentanti della martoriata regione nella consulta promossa dalla Cei come eredità dell’Incontro dei vescovi del Mediterraneo a Firenze nel febbraio 2022. Una sorta di piccolo Sinodo permanente, tutto laico e under 35, che scommette sulla gioventù cattolica per farne un “ponte” fra i popoli e le nazioni che la geopolitica ha separato. «Siamo chiamati a testimoniare che la pace è davvero possibile e a ribadire che ciò che ci unisce va ben oltre le differenze che la storia ci consegna», spiega Roudy G. Jido, ventitré anni. Ingegnere meccanico, siro-cattolico, è fra le voci del Libano all’interno del Consiglio.
Il Natale si avvicina. Ma lungo le sponde il rumore delle armi non si ferma. A cominciare dalla Palestina e da Israele. «Poter celebrare la nascita del Salvatore nel luogo dove il Verbo si è fatto carne rappresenta una sorta di privilegio – dice Fadi –. Ma la guerra ha già stravolto la festa. Pensiamo solo a Betlemme che è priva di pellegrini». Il giovane palestinese è consapevole che in tutte le chiese risuonerà l’annuncio dell’angelo ai pastori: “Pace in terra agli uomini amati dal Signore…”. «Quel canto è un inno di speranza. Perché ci ricorda che, nonostante tutto, anche a Betlemme tornerà ad essere in mezzo a noi il Re della pace». I venti di guerra soffiano pure sul Libano. «Ecco perché c’è bisogno di farsi prossimi a chi è toccato da un’inutile follia. Compito che spetta prima di tutto a noi giovani – sottolinea Roudy –. Guai a ritenere le genti che vivono un conflitto come semplici numeri». E, per raccontare in quale modo nel suo Paese si affronterà il Natale, cita il messaggio di Ignazio Youssef III Younan, patriarca siro-cattolico di Antiochia: «Ci prepariamo a celebrare la nascita del Signore Gesù. Ma da anni il clima in cui viviamo non è quello che speravamo, di gioia e di conforto psicologico, di famiglia e di amore per i nostri cari figli. Dobbiamo però fare in modo che tutto ciò che il Signore permette che accada nella nostra vita sia motivo di gioia interiore».
Al loro fianco sanno di avere i coetanei di Europa, Asia e Nord Africa. Quelli che hanno incontrato a Firenze lo scorso luglio quando il Consiglio si è insediato nella città toscana, sede del progetto. E quelli con cui continuano a confrontarsi nei diversi appuntamenti online che scandiscono il percorso senza precedenti fra le Chiese del bacino. «Il Mediterraneo – sostiene Fadi – è culla di civiltà e culture. Tuttavia è stato e purtroppo rimane anche campo di battaglia e terreno di scontri. Tocca ai giovani cambiare rotta. Abbiamo un ruolo cruciale. Dobbiamo imparare dagli errori del passato e assicurarci che non si ripetano in futuro». Tradurre il Vangelo in azione civile: un sogno? «La fraternità non è uno slogan, ma il risultato di atti concreti – afferma Roudy –. L’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti ci chiede di lavorare per favorire l’integrazione tra i Paesi, per far prevalere la giustizia sulla forza, per incentivare lo sviluppo economico e la cooperazione. E soprattutto ci sollecita a imboccare la via del dialogo che non è un anestetico o un “cerotto”, ma la risposta che ha un potenziale di gran lunga superiore a qualsiasi armamento militare». Il Consiglio guarda anche all’incontro fra i cristiani delle varie confessioni e con i credenti delle altre fedi monoteiste. «È anche questo un sentiero di pace. Contribuisce alla comprensione reciproca e alla fiducia. Chiese, moschee, sinagoghe sono luoghi in cui il divino deve declinarsi in costruzione effettiva di società armoniche dove giustizia e pace convivano», avverte l’ingegnere libanese. E la preghiera diventa “arma” che ispira a cambiare la storia. «La preghiera è il grande strumento a nostra disposizione – spiega il ragazzo di Gerusalemme – per lottare contro il male e i mali». Roudy aggiunge: «La Scrittura dice che è “molto potente” la preghiera “fervorosa del giusto”. Ebbene, siamo esortati a essere uomini giusti sui passi di Gesù Risorto».
All’ordine del giorno i ragazzi hanno messo iniziative e itinerari sull’educazione, la promozione sociale, la vita di fede, lo scambio fra le comunità. «Il fatto che ciascuno di noi provenga da realtà differenti con le proprie vicende, i propri costumi, le proprie tradizioni è un arricchimento. E tutto ciò dice che i popoli possono camminare insieme», sottolinea Fadi. E torna a riflette sul dialogo, caposaldo dell’organismo nato dalla profezia di pace sul Mediterraneo del sindaco “santo” di Firenze, Giorgio La Pira. «Accoglienza è una delle parole chiave. Significa andare oltre le nazionalità, le frontiere, le barriere religiose. Un impegno cui sono chiamati anche i popoli europei alle cui porte bussano i migranti in arrivo da situazioni tragiche e difficili. Perciò risulta di particolare importanza l’educazione».
Unire i giovani per unire le nazioni è la sfida lanciata dalle Chiese del bacino che hanno indicato i membri del Consiglio. «Una delle grandi lezioni che giungono dalla Bibbia è quella sulla pace. È nostra responsabilità e nostro dovere edificarla dal basso, nel quotidiano, con gesti e parole», sprona Fadi. E il Consiglio si trasforma anche in un messaggio politico, conclude Roudy. «A chi ci governa e a chi ha in mano le sorti dell’umanità mostriamo che l’amicizia fra i popoli non è un’utopia. Basta volerla».
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