Il Millennium Center di Betlemme e il centro interreligioso di Gerusalemme avrebbero dovuto unire i due popoli in guerra. Ma la vita di tutti i giorni è fatta di insidie, tensioni e crudeltà.
di Pier Lodovico Rupi
Nei primi anni Duemila mi sono occupato di due progetti: il Millennium a Betlemme sulla piazza della Natività, finalizzato al supporto della vita civile e culturale e al sostegno dell’economia palestinese con strutture scolastiche e museali. L’altro a Gerusalemme sul confine con Ramallah, finalizzato all’integrazione tra le comunità cattoliche, musulmane ed ebraiche con un complesso di strutture sportive, culturali e ricreative.
Per lo svolgimento di questi due incarichi, mi sono trasferito più volte e per periodi prolungati in quei luoghi e mi sono imbattuto in incontri, situazioni e vicende in territori che adesso sono all’attenzione del mondo.
Poco dopo l’inizio dei miei viaggi è scoppiata l’intifada, la “guerra delle pietre”, anche se questa guerra ha poco a che vedere con quello che è accaduto nel novembre scorso. Il mio impegno è iniziato con le visite al territorio palestinese, guidato dal frate francescano Ibrahim Faltas, alla ricerca di antiche architetture, da cui far derivare i due nuovi progetti.
Le atrocità sono dietro l’angolo e ce ne accorgiamo subito sentendo una donna urlare disperata e apprendiamo che un palestinese è stato ucciso perché aveva venduto un terreno agli israeliani. Nei successivi viaggi ho trovato costruzioni di una parte e dell’altra, che prima c’erano e adesso sono ridotte a mucchi di macerie.
La suora che ci serve a tavola, suor Feisa, si è convertita al cattolicesimo ed è riuscita, unica di sei figlie, a sfuggire al matrimonio combinato, imposto dal padre con altrettanti cugini per non disperdere il patrimonio. Ho conosciuto suor Sophia, una suora che raccoglie ragazze madri, le tiene nascoste e le assiste e, appena possibile, le fa uscire dalla Palestina. Altrimenti, lei e il bambino corrono gravi rischi.
Nella piazza della Natività di Betlemme, sorgono la chiesa cattolica, quella ortodossa, quella armena e la moschea. Ma a Gerusalemme, la religione appare ancora più intensamente vissuta.
Qui quasi tutti gli israeliani, a dimostrazione di una adesione spirituale all’ebraismo, si vestono dalla testa ai piedi di nero. Si incontrano preti di rito latino, bizantino, greco, e ortodosso; arrivano anche gli adepti della chiesa etiope, i sacerdoti della chiesa copto-alessandrina, siriaca e maronita, oltre ai protestanti, ai luterani, agli evangelisti, agli anglicani, ai battisti e agli armeni, con curiosi addobbi ciascuno alla propria maniera.
A Gerusalemme, queste religioni competono vistosamente tra loro e c’è uno strano uso condominiale dei Luoghi Santi, rigorosamente regolati da rapporti e orari precisi.
All’inizio dei miei viaggi, per visitare a Gerusalemme il Santo Sepolcro, c’era una fila lunghissima, ed io dovetti rinunciare. Ma con l’intifada, la fila sparì, cosicché, quando arrivò un numeroso gruppo italiano, l’organista, per festeggiare l’inconsueta presenza, intonò l’inno “Fratelli d’Italia”. Mi spiega Ibrahim che Betlemme viveva per il 50% di turismo, e per il 25% del lavoro svolto in Israele; ma con l’intifada il turismo è ridotto a zero e i lavoratori non hanno più il permesso di uscire dalla Palestina. Ibrahim mi fa notare che anche in Israele c’è forte sofferenza: la vita è a rischio, nulla è sicuro, e anche per Israele il turismo costituiva un’importante risorsa, mentre la scomparsa della manodopera palestinese ha provocato gravi problemi.
In Palestina i frati sono molto considerati. Però la “battuta” di Bush sulla guerra in Afghanistan, definita “la nuova crociata”, non ha giovato ai francescani: “ecco i crociati” è diventata la battuta sarcastica dei palestinesi al cospetto dei frati. Il sindaco di Betlemme Hanna Nasser, nominato da Arafat, è un distinto anziano signore, parla inglese, la moglie parla francese, abita in una bella villa di Betlemme, le figlie hanno studiato negli Stati Uniti.
La concessione edilizia del mio progetto di Betlemme fu, per così dire, rilasciata con una procedura molto particolare. Nel corso di un pranzo dal sindaco, a cui partecipa anche l’ingegnere comunale, di nome Giuda, tra il the e i pasticcini, espongo succintamente il progetto, svolgendo in qualche modo i rotoli dei disegni sul tavolo apparecchiato.
Padre Ibrahim traduce in arabo, il sindaco annuisce e la licenza è rilasciata sulla parola. E quindi viene subito suggellata con un ottimo pranzo. A Gerusalemme, andiamo con Ali Rashid a visitare la Moschea della Spianata. La Moschea è chiusa, ma per l’ambasciatore si apre subito. Veniamo mandati a chiamare dal Mullah, che risiede in un bel palazzo arabescato davanti alla Moschea.
Il Mullah ci riceve con il solito rito del tè e pasticcini e ci tiene un lungo discorso in arabo sul problema israeliano-palestinese, che padre Ibrahim ci traduce in diretta. Giorni dopo apprendiamo dalla stampa che il Mullah è stato incarcerato dagli Israeliani.
L’ultima volta a Betlemme, eravamo tutti a cena dal costruttore del Millennium, in una villa isolata su una collinetta prospiciente Beit Sahour (traduzione: il campo dei pastori). Beit Sahour è una piana zeppa di carri armati e di soldati israeliani, mentre arrivando quassù, incontriamo, appostati intorno alla villa, alcuni giovani palestinesi armati di kalashnikov. Ceniamo in una ampia terrazza che guarda la piana e ci sentiamo osservati dagli israeliani. Non ci resta che augurarci che i palestinesi trincerati dietro la villa restino tranquilli. Quando finalmente andiamo via, tornando all’albergo dei frati, tiriamo un sospiro di sollievo. Lavorare in questi territori comporta anche momento di apprensione, ma i due progetti sono troppo importanti per non valere qualche rischio.
Arezzo, 10 Dicembre 2023
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