Sophia, cresciuta nell’isola separata: unire le sponde nel nome della solidarietà
È il simbolo delle divisioni che si toccano con mano lungo le sponde del Mediterraneo. Cipro, ovvero l’isola del muro. Separata in due dalla linea verde: da una parte, la Repubblica di matrice greca; dall’altra, il segmento occupato dalla Turchia. «C’è bisogno che le persone, le comunità, i popoli si uniscano per combattere le ingiustizie e le divisioni che pervadono il bacino», dice Sophia Kalou. Diciotto anni, il diploma appena ottenuto alla scuola superiore, è nata e cresciuta nel fazzoletto di terra conteso che il mare circonda. «Ma sono metà cipriota e metà scozzese», scherza. A Firenze arriva consapevole che «il cristiano è chiamato a portare ogni giorno la sua croce», osserva mentre si siede per prendere parte alla prima sessione del Consiglio dei giovani del Mediterraneo voluto dalla Cei e ospitato nel capoluogo toscano. «Siamo ragazzi di tutte le sponde. Non solo vogliamo testimoniare la ricchezza delle nostre realtà, ma dobbiamo anche iniziare a costruire un’identità mediterranea che abbia al centro l’uguaglianza e la sostenibilità. Ecco perché considero questa iniziativa un’opportunità; anzi, un primo passo per contribuire a cambiare le società in cui viviamo, che fanno i conti con le disuguaglianze di razza e genere, con le discriminazioni, con l’ignorato dramma del cambiamento climatico. Intendo ascoltare come i miei coetanei di altri Paesi vedano il mondo e come si viva il Vangelo in aree vicine o lontane. La conoscenza reciproca è essenziale se si desidera costruire relazioni di vera prossimità».
Per quattro anni Sophia ha guidato il gruppo di San Barnaba, un’esperienza di incontro e dialogo fra i ragazzi cristiani di Cipro «per discutere in maniera libera su temi comuni e per riflettere intorno ad argomenti che rafforzano la nostra fede», racconta. E aggiunge: «Il Signore ci insegna che vanno affrontate le sfide di fronte a cui siamo posti. Anche a costo di sacrifici personali». Lei considera la sua isola un osservatorio privilegiato sulle contraddizioni che si sperimentano nel grande mare. «È fondamentale dare voce all’intero Mediterraneo. Il che significa partire dall’Europa ma soprattutto avere uno sguardo privilegiato sulle ferite dimenticate: penso a quelle delle genti del Medio Oriente e del Nord Africa. Anche loro ritengono il Mediterraneo la propria casa». Una pausa. «Ci sono questioni cruciali che minacciano la sicurezza e la pace: ad esempio la crisi migratoria, il conflitto israelo-palestinese, la crisi libica, l’instabilità politica. Le opinioni pubbliche devono aver ben chiaro qual è la posta in palio».
Ma che cosa fare? «Come giovani possiamo lanciare progetti mirati che provino a indicare soluzioni a problemi condivisi». Iniziative dal basso. Concrete. Com’è nello spirito del Consiglio ai nastri di partenza, su cui scommettono i vescovi. «Alle Chiese del Mediterraneo chiediamo di adottare un atteggiamento più aperto che favorisca l’inclusività. È innegabile che noi ragazzi sogniamo una Chiesa che sappia superare le barriere e abbracci tutte le comunità, ma anche che declini nel concreto la carità». Sorride Sophia. «Il bacino è stato culla di grandi civiltà che hanno collegato le rive. Noi ne siamo eredi. E quindi abbiamo la responsabilità di continuare a solcare il nostro mare, ma stavolta nel segno della solidarietà e della cooperazione».
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