C.L. Altissimo, Il martirio in Russia e nell’Europa dell’Est (1917-1991), Vicenza, 2009, pp. 151
Il 24 marzo di ogni anno la Chiesa cattolica celebra la Giornata dei martiri, i testimoni della fede in Cristo giunti a donare la vita per assimilarsi a Lui. Nella sua ricerca padre Altissimo, dell’ordine dei Servi, amplia il concetto di martire fino ad includere chi soccombe per affermare le esigenze della propria convinzione religiosa e sociale. Ricorda i primi due martiri russi, i principi Boris e Gleb, canonizzati come strastoterpcy, uomini che «soffrirono la passione»; si consegnarono ai loro carnefici senza opporre resistenza al male come fecero innumerevoli martiri del XX secolo, «umili testimoni della Croce redentrice di Cristo e dell’amore che da essa si diffonde su tutto il mondo». Agli occhi della pietà russa, afferma l’autore, la non-resistenza e una morte violenta subita per conformarsi all’esempio di Cristo sono la «specificità», una «modernità» del martirio e quello del Novecento, da lui definito «il secolo del più grande macello di cristiani» per ferocia, vastità e quantità di vittime, è stato un martirio spesso anonimo, nascosto, silenzioso, «un attacco alla dimensione religiosa dell’uomo in quanto tale». Il martirio moderno, osserva, è anche un «“fatto ecumenico”: non solo perché ha colpito trasversalmente tutte le confessioni cristiane, ma anche perché ha creato una profonda comunione nella sofferenza». In questo agile volume, egli presenta in sintesi le varie tappe delle persecuzioni del secolo scorso, specialmente quelle subite dai fedeli delle Chiese ortodossa e cattolica, ma anche di altre religioni, nella Russia e nei vari paesi legati al regime sovietico. Delinea le condizioni di esistenza delle chiese, le motivazioni addotte dai sistemi totalitari nelle varie fasi della loro lotta antireligiosa, le forme e la portata delle azioni repressive messe in atto.
Tiziana Bertola (Venezia)
G.Ardeleanu, N. Steinhardt e i paradossi della libertà. Una prospettiva monografica, Bucarest, Editrice Humanitas, 2009, pp. 532
Il lavoro di George Ardeleanu costituisce un interessante contributo bio-bibliografico alla figura di Steinhardt tanto da essere indicata come una guida di orientamento nella lettura di tutta l’opera steinhardtiana, che viene presentata in tre grande sezioni: I. La Biografia, Le Ideologie, Metamorfosi Spirituale; II. Trent’anni sotto il controllo della securitate comunista; III. Qualche tema steihardtiene. Il libro offre una ricostruzione completa della vita di Nicolae Steinhardt (1912-1989), dall’infanzia agli anni di formazione fino alla conclusione della sua vita; questa parte biografica è divisa in due periodi: il primo periodo, prima della conversione (fino agli anni ’30 del XIX secolo), viene interpretato alla luce del mysterium fascinans: la fanciullezza, il liceo, l’università, le amicizie, le opzioni politiche, le preoccupazioni per la scrittura; il secondo periodo appartiene al mysterium tremendum: il suono delle campane delle chiese d’intorno, i sentimenti spirituali, l’arresto, il battesimo, i viaggi all’estero, la scelta di entrare in monastero. Con grande ricchezza di particolari l’autore ripercorre ogni tappa della vita di Steinhardt, provando a presentare il profilo biografico ed intellettuale di Steinhardt, un ebreo convertito al cristianesimo, mondano, ironico, diventato poi monaco dopo aver passato quattro anni di detenzione in una prigione comunista. L’autore riesce a produrre un ritratto che rende bene la complessità della vita di Steinhardt che ha attraversato le vicende storiche del periodo interbellico e postbellico della Romania e dell’Europa. Il volume è il risultato di una ricerca minuziosa, fondata su documentazione inedita (lettere, pagine del diario, altro materiale), sugli scritti di Steinhardt oltre che su una vasta conoscenza della storia della Romania, in particolare degli anni del potere comunista, che viene presentato a partire dalla documentazione, mostrando i metodi usati dal potere comunista nella repressione di ogni forma di spiritualità che possa mettere in discussione il regime. Nella formulazione della parte biografica gli stessi titoli dei singoli capitoli suscitano l’attenzione e la curiosità del lettore: un fanciullo di una ricca famiglia, la sua parentela con Freud e la sua visita a Vienna, il giovane ironico, gioviale, sarcastico, il polemista, il dottore in diritto costituzionale che diventa un perseguitato politico. L’autore si sofferma poi su alcuni aspetti particolarmente significativi per comprendere l’opera e la figura di Steinhardt: il battesimo nel carcere di Jilava, l’esperienza benedettina del monastero Chevetogne (Belgio), la corrispondenza con Th. Enescu, V. Nemoianu e V. Iernuca. Il volume aiuta il lettore a comprendere lo spirito ecumenico di Steinhardt che non nasce solo dal suo percorso spirituale che lo ha condotto ad abbracciare la fede cristiana, ma da una profonda riflessione che lo spinge a vivere in modo diverso la libertà. Nelle addenda al volume trovano posto una serie di documenti che mostrano le sofferenze di Steinhardt, sorvegliato e controllato anche da coloro che credeva suoi amici, così come emerge da una serie di testi che vengono qui riprodotti. Il libro di Ardeleanu è il risultato di una ricerca appassionata, onesta, riccamente fondata sugli scritti di Steinhardt e sulla bibliografia esistente, con un sistematico ricorso anche a materiale inedito, tanto da configurarsi come un modello per uno studio che vuole favorire la conoscenza del ruolo degli intellettuali nella storia contemporanea della Romania.
Ilaria Benzar (Venezia)
Ch. Böttrich, B. Ego, F. Eissler, Abraham in Judentumn, Christentum und Islam, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2009, pp. 188
La figura di Abramo rappresenta un elemento comune al cristianesimo, all’ebraismo e all’islam, con accenti e tradizioni diverse; negli ultimi anni si sono venuti moltiplicando gli interventi, talvolta anche non di carattere prettamente scientifico, per favorire una migliore comprensione di Abramo in una prospettiva interreligiosa a partire da una attenta lettura dei testi sacri delle tre religioni che raccontano le vicende umane e spirituali di Abramo. Il presente volume si colloca in questo orizzonte di studi, segnalandosi per chiarezza, sinteticità e scientificità nella trattazione di Abramo nelle tre religioni. Beate Ego, docente di Antico Testamento all’Università di Osnabrück, offre un quadro di Abramo nell’ebraismo a partire dai passi biblici per poi passare alla letteratura ebraica più antica fino ad alcune considerazioni sulla figura di Abramo per Israele. A Christfried Böttrich, professore di Nuovo Testamento nell’Università di Greifswald, spetta il compito di presentare Abramo nella tradizione cristiana, che introduce una nuova prospettiva in una storia già nota, dal momento che i cristiani rileggono e interpretano Abramo come appare chiaramente nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva. Infine Friedman Eßler parla di Abramo nell’islam, ponendo come premessa una breve presentazione di cosa i mussulmani dicono di Abramo. Anche per lui il punto di partenza è costituito dal Corano, anche se dà ampio spazio anche alle tradizioni islamiche posteriori al Corano su Abramo, tanto importanti che egli, al termine del suo contributo, propone una lettura in prospettiva «universale» della figura di Abramo. Le indicazioni bibliografiche, poste alla fine di ogni saggio, contribuiscono a rendere questo agile testo un utile strumento per comprendere elementi comuni e significative differenze tra cristianesimo, ebraismo e islam su Abramo.
Riccardo Burigana (Venezia)
L.Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Bari/Roma, Laterza, 2010, pp. 266
L’apertura delle carte relative al pontificato di Pio XI negli archivi vaticani ha dato vita a un’intensa stagione di studi su papa Ratti con l’attivazione di nuove ricerche, la celebrazione di convegni internazionali e la pubblicazione di saggi; questa stagione di studi ha messo in moto un percorso di ricomprensione dell’opera di Pio XI soprattutto sui rapporti tra il papa e il fascismo, uno dei temi sui quali il dibattito storiografico si era più interrogato, non solo in Italia, con la comparsa di una serie di posizioni che tendevano a condannare o assolvere Pio XI per la sua politica nei confronti del fascismo e di conseguenza anche del nazismo, soffermandosi soprattutto su quello che il papa avrebbe voluto fare, ma che non era riuscito a fare. A questa nuova stagione di studi su Pio XI, una stagione che ci si augura possa proseguire ancora per molto tempo in modo da illuminare un passaggio fondamentale nella storia della Chiesa del XX secolo, appartiene il bel volume di Lucia Ceci, docente di Storia contemporanea all’Università Tor Vergata di Roma. La studiosa, autrice tra l’altro di un saggio sulla presenza cattolica in Somalia in epoca coloniale (Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia 1903-1924, Roma, 2006), ricostruisce, con grande efficacia e precisione, anche grazie alla documentazione inedita, la posizione di Pio XI e, più in generale, della Santa Sede, nei confronti dell’impresa etiopica del regime fascista, mettendo bene in luce che essa assunse un valore che travalicava la dimensione nazionale dell’azione del papato. Infatti essa toccava la questione della definizione della «guerra giusta» che costituisce l’argomento del primo capitolo nel quale si evidenzia la contrarietà di Pio XI per questa azione militare proprio perché proponeva una soluzione che andava contro quanto si era cominciato a affermare nella Chiesa cattolica, soprattutto a seguito della prima guerra mondiale, con un rifiuto del ricorso sistematico alle armi. Come il libro mostra nel suo scorrere, la posizione personale di Pio XI si dovette misurare con l’entusiasmo di molti cattolici, anche tra le alte gerarchie, che consideravano la guerra contro l’Etiopia non solo una guerra giusta, ma anche necessaria, poiché appariva come il completamento di un processo di espansione coloniale fermato dalla sconfitta di Adua prima e dall’avversione delle potenze occidentali poi. Non mancarono le parole, anche pubbliche, di Pio XI contro la guerra, ma la posizione del papa si andò progressivamente confinando nell’azione diplomatica tanto più che la maggioranza dei cattolici italiani si mostrò a favore della politica mussoliniana, come illustra l’autrice nel prendere in esame la campagna a favore dell’«oro alla patria». La conclusione della guerra e la difficile pacificazione contribuirono, solo in parte, a raffreddare l’entusiasmo dei cattolici, che pure cominciò ad affievolirsi anche a seguito del progressivo avvicinamento al nazismo e alla comparsa, proprio in seguito alla conquista dell’Etiopia, dei primi segni di una legislazione antirazzista. Da questo punto di vista l’ultimo capitolo, dedicato al ruolo delle missioni cattoliche italiane in Etiopia, in particolare ai missionari della Consolata, mostra chiaramente la lungimiranza di Pio XI nel comprendere la debolezza del progetto coloniale del fascismo, che pure seppe abbagliare molti cattolici nella fase di preparazione e nello svolgimento dell’azione militare. Questo volume, fondato su una base di documentazione inedita e da una profonda conoscenza della bibliografia, consente di comprendere l’ampio livello della partecipazione dei cattolici italiani a sostegno dell’impresa etiopica, e al tempo stesso le ragioni dell’opposizione di Pio XI, che dovette confrontarsi, anche in Vaticano, con quei cattolici che, per convinzione e/o per convenienza, avevano deciso di seguire Mussolini.
Riccardo Burigana (Venezia)
V. De Cesaris, Vaticano, fascismo e questione razziale, Milano, Guerini & Associati, 2010, pp. 283
Il tema del rapporto tra la Chiesa Cattolica e il regime fascista negli anni della persecuzione razziale, cioè dopo il 1938, è stato oggetto di numerosi studi di recente, tanto più dopo l’apertura degli archivi di papa Ratti. Ancora molte sono le questioni da approfondire per gettare piena luce sulle posizioni della Chiesa Cattolica, dalla politica della Santa Sede all’azione dei vescovi a partire dalla documentazione edita. Valerio De Cesaris, docente di storia contemporanea all’Università per stranieri di Perugia, autore di numerosi saggi sul tema del rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo ebraico nella prima metà del XX secolo, parte proprio da una puntuale, quanto efficace, analisi de L’Osservatore Romano per delineare le posizioni di una parte della redazione del giornale, chiaramente sostenuta da ambienti della Santa Sede, contrarie alla svolta del regime fascista in favore di un rapporto sempre più organico con il nazismo. Proprio questo rapporto sembra essere l’elemento determinante nella definizione di un nuovo rapporto con il regime di Mussolini, che reagisce con una certa violenza, non solo verbale, a questa svolta de L’Osservatore Romano. Nonostante queste reazioni, che trovano un certo appoggio da una parte del clero italiano, allineato sulle posizioni del fascismo e, per certi versi, addirittura favorevole all’alleanza con la Germania, L’Osservatore Romano non muta la propria posizione, diventando una delle poche voci critiche della campagna antisemita del fascismo; in questo si trova in sintonia con molti esponenti dell’episcopato europeo, che consideravano «inammissibile» l’antisemitismo. L’ultimo capitolo di questo agile saggio si propone di offrire una sintesi delle posizioni del dibattito tra razzismo e leggi razziali nella Chiesa, non solo in Italia, con alcune interessanti osservazioni sulla questione dei matrimoni misti e sulla continuità di linea politica da Pio XI a Pio XII.
Riccardo Burigana (Venezia)
Don Michele Rua, primo successore di don Bosco, a cura di Grazia Loparco e Stanisław, Roma, LAS, 2010, pp. 1105
A don Michele Rua (1837-1910) sono stati dedicati nel corso degli anni numerosi studi nel tentativo di ricostruire l’attività di questa «instancabile figura» che ha proseguito l’opera di don Bosco, rafforzando quella dimensione universale della famiglia salesiana che era nella mente del fondatore dei salesiani. Ricostruire la vita di don Michele Rua non significa quindi semplicemente penetrare nelle origini dei salesiani e nella loro rapida diffusione, ma offrire una straordinaria opportunità per comprendere le dinamicità della Chiesa cattolica tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX in una prospettiva universale quale è stata quella nella quale don Rua ha condotto i salesiani consolidando o fondando nuove comunità. Per questo appare particolarmente interessante la pubblicazione degli atti del convegno internazionale, che si è tenuto a Torino nei giorni 28 ottobre – 1 novembre 2009, sulla figura di Don Michele Rua, con particolare attenzione agli anni (1888-1910) nei quali ebbe la responsabilità della famiglia salesiana. Il volume si articola in tre parti. La prima affronta la questione del rapporto tra biografia e agiografia, con due contributi sulle ricostruzioni storiche della vita di don Rua, quella di Giovanni Battista Francesia (1911), che ebbe una grande diffusione contribuendo alla formazione dell’immagine di don Rua, al più recente lavoro di Francis Desramaut (2009). Seguono due testimonianze, una sul possibile confronto tra le positiones historicae di don Bosco e di don Michele Rua nei processi di beatificazione e una seconda sulle testimonianze delle Figlie di Maria Ausiliatrice. La seconda parte contiene una serie di contributi sull’opera e sulla figura di don Rua, attraverso la sua azione di governo, in particolare su alcuni progetti come la missione in Patagonia, tra «utopia e realtà», o il sostegno di don Rua alla creazione di nuove forme di accoglienza e di formazione negli oratori, al ricorso della musica e del teatro nell’azione missionaria. La terza parte è interamente dedicata alla presenza dei salesiani nel mondo, con un’analisi molto puntuale della vita delle singole comunità, dei loro rapporti con la Chiesa di Roma e con le autorità civili locali; si parte dall’Italia, con dei contribuiti sull’opera salesiana in Piemonte, sulle relazioni con le Figlie di Maria Ausiliatrice sempre in Piemonte, alle istituzioni salesiane in Lombardia, in Emilia Romagna, in Toscana, nel Triveneto, a Roma e nel Mezzogiorno di Italia, per poi passare al resto dell’Europa, con le fondazioni in Spagna, l’ispettoria inglese e le prime presenze in Slovenia, all’Africa-Asia, all’America, alle opere salesiane in Ecuador, in Messico e negli Stati Uniti. Nel complesso i contributi sono sostenuti da un ampio ricorso alle fonti, molte delle quali ancora inedite, e da un’approfondita conoscenza della bibliografia, tanto da offrire delle ricostruzioni scientificamente fondate, dalle quali si danno delle indicazioni per nuove ricerche tanto più quanto si parla di fonti, come le circolari del Capitolo Superiore (1878-1895), che possono favorire una migliore conoscenza dell’opera di don Rua e della vita delle comunità salesiane negli anni del suo governo. Infine va un plauso ai curatori per essere riusciti, sicuramente con il concorso degli autori dei singoli contributi, a giungere alla pubblicazione di un volume tanto corposo, a meno di un anno dal convegno, mettendo così a disposizione della comunità scientifica preziosi materiali per approfondire il ruolo dei salesiani nella vita della Chiesa tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX e nel loro rapporto con la società.
Riccardo Burigana (Venezia)
L. Felici, Giovanni Calvino e l’Italia, Torino, Claudiana, 2010, pp. 152
Le celebrazioni per il 500° anniversario della nascita di Calvino sono state una straordinaria occasione per una migliore comprensione della figura e dell’opera del riformatore ginevrino grazie ai numerosi studi pubblicati, aprendo delle nuove prospettive per la conoscenza di un passaggio fondamentale nella storia non solo europea. A questa stagione appartiene l’agile ma, assai avvincente saggio di Lucia Felici sui molteplici rapporti tra Calvino e il mondo italiano, con il quale l’autrice cerca di offrire un quadro di quanto sia stato importante e presente Calvino nella riflessione religiosa italiana del XVI secolo. Per questo l’autrice non si limita a ricostruire la presenza fisica di Calvino in Italia, a cominciare dalla sua visita alla duchessa Renata di Francia a Ferrara e alla loro corrispondenza, della quale molto è stato scritto in questi anni di indagine sui rapporti tra l’evangelismo italiano e proprio il pensiero di Calvino, anche alla luce delle difficoltà incontrate da molti evangelici italiani una volta fuggiti a Ginevra, con il passaggio da una conoscenza letteraria a una conoscenza reale di Calvino. L’autrice affronta così anche il tema dell’influenza del pensiero di Calvino sulle figure dell’evangelismo italiano, attraverso un puntuale lavoro che mostra la straordinaria capacità dell’autrice di muoversi nell’universo di coloro che cercavano una via italiana alla riflessione sulla riforma della Chiesa, con una molteplicità di approcci, destinati a non produrre effetti immediati, dato il processo di confessionalizzazione che si venne sviluppando in Europa. Per questo l’autrice dedica ampio spazio anche ai rapporti tra Calvino e gli italiani che lo raggiunsero a Ginevra e che, in molti casi, furono costretti ad abbandonare la città svizzera proprio per le diverse posizioni teologiche tra loro e il riformatore. Dalle pagine dedicate da Lucia Felici, che insegna storia moderna all’Università di Firenze, appare evidente che gli italiani non furono semplicemente influenzati da Calvino nella riflessione teologica e nella polemica anti-papale, ma con la loro peculiare presenza a Ginevra contribuirono alla definizione di un patrimonio teologico-spirituale sul quale si è venuta costruendo la società moderna.
Riccardo Burigana (Venezia)
J. Freyer, Homo Viator. Una antropologia teologica in prospettiva francescana, Bologna, EDB, 2008, pp. 512
Lo studio fa parte di una collana intitolata Corso di Teologia Spirituale curata dall’Istituto Francescano di Spiritualità della Pontificia Università Antonianum. L’autore affronta l’antropologia teologica da una precisa prospettiva: l’eredità della riflessione francescana del XIII, XIV e XV secolo. Sin dalla prefazione appare urgente il tentativo di connessione di tale eredità con la produzione culturale contemporanea. In un clima di rinnovato risveglio della domanda sui valori, sul significato etico e bioetico della vita umana, sulla questione ecologica, cosa può dire la tradizione francescana e, in particolare, il modo in cui, secondo il francescanesimo, è da interpretare il complesso rapporto uomo-mondo? L’autore tenta di rispondere a questa domanda a partire da una formulazione del problema dettagliata, in cui è proposta al lettore una tesi che accompagnerà sino alle ultime pagine: l’autocomprensione che l’uomo ha di sé e del mondo, ha un decisivo influsso sulla strutturazione della sua stessa vita e dello spazio che abita. Dalle modalità con cui si dispiega la capacità antropologica di autocomprensione, derivano l’atteggiamento e le posizioni etiche con cui l’uomo si pone di fronte a sé e al suo ambiente. Tale autocomprensione, secondo la tradizione francescana, è innanzitutto teologica e, in particolare, soteriologica. L’uomo è la creatura di Dio in cui si manifesta la salvezza quale origine e fine della storia. In altre parole, la salvezza alla quale Dio chiama l’uomo è l’origine, lo scopo della creazione e il fine/la fine della storia, il compimento del senso della creazione stessa. Si tratta della predilezione della tradizione francescana per la teologia giovannea e la prospettiva incarnazionista. Ma ciò che stupisce di tale eredità, per quanto complessa e sviluppatasi in contesti culturali e scuole diverse (Parigi e Oxford), a volte dall’apparente incoerenza, non è tanto l’impianto teologico in quanto tale, tradizionalmente trinitario-cristologico. Ciò che stupisce è il metodo. Se la teologia tomista muove dalla ratio per assaporare l’amore di Dio, la tradizione speculativa francescana parte dall’amore, dai movimenti degli affetti e dalle intuizioni emotive, per giungere ad elaborare una visione unitaria della sapienza. Naturalmente anche i teologi francescani contribuiscono alla riflessione metafisica della scolastica, ma il problema dell’essere pare a loro interessare meno rispetto al problema della storia della salvezza. A tali distinzioni, l’autore giunge attraverso una riproposta degli autori francescani, dagli scritti di Francesco stesso a Bernardino da Siena. La riflessione teologica del volume procede in tre tappe: la creazione quale origine e compimento della salvezza, la creazione senza salvezza, ovvero l’uomo come peccatore, ed infine la creazione nuova, ovvero l’escatologia. La quarta e ultima tappa del percorso è la proposta del fondamento di una prassi, ovvero la questione etica. Da un punto di vista ecumenico, la quarta parte è quella che determina maggiori connessioni con l’impegno teologico del dialogo con le altre confessioni cristiane e con la cultura del mondo contemporaneo. L’etica francescana è infatti innanzitutto un’etica del dialogo e dell’accoglienza. A partire dalla visita di Francesco al Sultano, nella tradizione francescana c’è sempre stata apertura al dialogo con il mondo, con i dissenzienti e con persone di altra fede. L’opera di Raimondo Lullo Liber Gentilis, le dispute sulla religione e le discussioni sulla fede durante il periodo della Riforma sono solo due esempi eclatanti. La tradizione francescana oggi può testimoniare la volontà di dialogo anche con l’uomo della post-modernità, in particolare là dove la sensibilità religiosa si sta risvegliando a fronte di una perdita di unità nel patrimonio di conoscenza di un mondo globalizzato, di una percezione del tempo sfuggevole che costringe ad una accelerazione dei ritmi di vita, vita sempre più connessa e sempre meno in relazione. L’autore, rispetto a queste nuove istanze, presenta un’antropologia francescana in cui l’uomo si percepisce in mobilità, homo viator, ma non semplicemente turista; nostalgico, assetato di senso e in continua ricerca, ma non depresso; che conosce il mondo essenzialmente cristificato e attraverso di esso, perciò non è fuga da esso a causa di previsioni neoapocalittiche. Certo, tale fondamento della prassi è utopico. Eppure si tratta di un’utopia che nei secoli, attraverso il grande Sabato, ha animato uomini e donne che hanno illuminato il loro tempo e il loro spazio. Costoro sono stati spesso screditati e giudicati folli, perché simili vite dicono il desiderio di eternità, rendono visibile la nostalgia di ogni carne.
Roberto Ranieri ofm (Milano)
Guida al museo Sinagoga Sant’Anna. Sezione Ebraica del Museo Diocesano di Trani, Trani, Messaggi, 2009, pp. 197
Il recupero e la conoscenza della memoria storica rappresenta una componente fondamentale del dialogo ebraico-cristiano tanto più in Italia, dove la presenza di comunità ebraiche risale al primo secolo prima di Cristo; le vicende storiche che hanno coinvolto queste comunità nel corso dei secoli, sono state un elemento importante nella formazione della cultura italiana, con una forte mobilità sociale, che dipendeva anche dai cambiamenti politici in atto nella penisola. Il provvedimento di espulsione degli ebrei da parte del regno di Spagna nel 1492 ha avuto conseguenze anche in Italia, con il progressivo consolidarsi e ampliarsi del potere spagnolo, che ha assunto il controllo diretto di territori, mentre le mutate condizioni confessionali determinavano un irrigidimento legislativo nei confronti degli ebrei, che furono così costretti a vivere, con poche eccezioni, nei «ghetti», mentre altrove erano espulsi dalle comunità. Da questo punto di vista il caso di Trani è singolare; infatti la comunità ebraica della città pugliese è attestata fin dal XI secolo e crebbe, soprattutto sotto Federico II, fino a raggiungere una dimensione così ragguardevole da determinare la costruzione di quattro sinagoghe. La comunità divenne un elemento fortemente caratterizzante della città di Trani almeno fino alla fine del XIII secolo quando la trasformazione delle sinagoghe in chiese testimonia la sua scomparsa, che fu dovuta, non a ragioni violente o economiche, quanto piuttosto a un rapido assorbimento nella comunità cristiana, con la «conversione» degli ebrei al cristianesimo. Di questa storia tanto intensa quanto circoscritta nel tempo Trani conserva, talvolta nascoste, in ogni caso disperse, frammenti di memoria e si deve alla volontà di una pluralità di soggetti, tra cui la diocesi di Trani, il recupero della memoria della storia della comunità ebraica: la Chiesa di Sant’Anna, una delle quattro sinagoghe trasformate in chiesa, è diventata così il luogo della raccolta di questa memoria, come sezione ebraica del museo diocesano. La presente guida, in italiano e inglese, offre un quadro dettagliato della presenza ebraica a Trani, con continui rimandi alla situazione più generale degli ebrei nell’Italia meridionale, attraverso la descrizione delle tante testimonianze della cultura e della spiritualità ebraica ancora ben vive a Trani. Di particolare interesse sono le pagine dedicate anche alle tradizioni antiebraiche che mostrano come il rapporto tra cristiani e ebrei sia stato per secoli inquinato da reciprochi sospetti e incomprensioni. Il museo diocesano Sant’Anna non tace su questi aspetti, ma si propone di promuovere la conoscenza delle presenze ebraiche in Italia, partendo da un contesto locale, per favorire la costruzione di una società fondata sulla molteplicità delle ricchezze del passato.
Riccardo Burigana (Venezia)
P.L. Guiducci, L’identità affermata. Storia della Chiesa Medievale, Roma, LAS, 2010, pp. 351
L’autore presenta una ricostruzione, articolata e dettagliata, delle vicende storiche della Chiesa dalla fine del IV secolo fino all’inizio del XVI secolo. La ricostruzione delle vicende è preceduta da un capitolo introduttivo nel quale si affrontano alcuni nodi metodologici per chiarire il carattere e gli scopi dell’opera; si parla della periodizzazione dell’epoca medievale, anche alla luce del recente dibattito storiografico, dell’uso del termine «medioevo» in altri contesti, delle peculiarità del medioevo occidentale, nel quale si trovano le radici della scienza moderna, dell’antinomia tra l’elemento giuridico e quello carismatico e si introducono degli elementi per un orientamento nelle interpretazioni storiografiche e nelle collezioni delle fonti. Dopo questo capitolo il volume è composto da otto parti: Dalle invasioni barbariche all’espansione islamica (1), Dal nuovo ruolo del vescovo di Roma alla separazione con l’Oriente (2), Sacerdotium e impero (3), Ortodossia ed eterodossia nei nuovi movimenti religiosi (4), La fede manifesta: nei vissuti, nella cultura, nell’arte, nella letteratura (5), Il tramonto progressivo di un’epoca (6), Agli albori dell’epoca moderna (7) e Misericordia divina e indulgenze ecclesiali (8). Ogni parte contiene numerosi capitoli che trattano, in modo lineare, il periodo preso in esame sotto una molteplicità di aspetti tanto che il lettore viene guidato in questo mondo medievale, apparentemente lontano, per assicurargli una conoscenza puntuale di cosa è successo, di cosa si è scritto e di cosa si è discusso nella Chiesa; ogni parte si conclude con degli orientamenti bibliografici che servono soprattutto per eventuali approfondimenti personali di quanto l’autore ha descritto, in modo necessariamente sintetico, data la vastità dell’epoca e dei temi che si è proposto di affrontare. Anche da un punto grafico il volume si presenta come uno strumento per un primo necessario approccio all’epoca medievale, senza la quale molte delle vicende della Chiesa, in particolare del dialogo ecumenico, rischiano di non essere comprese nella loro profondità; si tratta di uno strumento utile per coloro che desiderano essere introdotti all’epoca medievale, nella sua dimensione europocentrica, poiché anche le vicende del Vicino Oriente sono affrontate solo in relazione alle dinamiche ecclesiali dell’Europa, pur con qualche lodevole eccezione, come il capitolo sulla nascita e l’espansione dell’islam, che si conclude con alcune considerazioni di Giovanni Paolo II sul dialogo islamo-cristiano.
Riccardo Burigana (Venezia)
L’ecumenismo in Campania. Consiglio regionale delle Chiese Cristiane della Campania, Napoli, LER, 2010, pp. 45
Questa pubblicazione raccoglie gli atti istitutivi del Consiglio regionale delle Chiese Cristiane della Campania, con il quale i cristiani della Campania hanno voluto manifestare la centralità della dimensione ecumenica della testimonianza evangelica, indicando anche una strada per rendere sempre più efficace l’azione ecumenica in una regione, nella quale da decenni si sono sviluppati rapporti e iniziative tra cristiani. L’istituzione del Consiglio regionale delle Chiese cristiane della Campania è risultato di un clima ecumenico che si è venuto creando, soprattutto dopo il concilio Vaticano II, quando, soprattutto in Italia, non sono cominciati a nascere dei gruppi di cristiani direttamente impegnati nella ricerca dell’unità della Chiesa, proprio sotto la spinta del dibattito conciliare e della promulgazione di alcuni documenti. Per questo motivo risale la nascita del GIAEN (Gruppo Interconfessionale per le Attività Ecumeniche a Napoli), che da decenni promuove occasioni di dialogo nella Chiesa di Napoli; e negli ultimi anni, arricchiti da un punto di vista ecumenico da una molteplicità di iniziative, come quelle promosse nell’arcidiocesi di Salerno, grazie all’opera di don Angelo Barra, l’arrivo di nuove comunità cristiane, che sono state il risultato dei processi migratori, ha profondamente mutato il panorama ecumenico, anche in Campania, ponendo nuove domande e aprendo nuove prospettive. Il Consiglio è stato reso possibile anche dai passi ecumenici compiuti a livello universale; in questi anni non sono mancati i documenti, le parole e i gesti che hanno sottolineato come i cristiani debbano vivere per rimuovere gli scandali della divisione, che per secoli hanno contrapposto le Chiese e le comunità ecclesiali. In questa prospettiva si comprende la scelta di pubblicare, in appendice a questo volume, la Charta Oecumenica, che rappresenta per tutti i cristiani, non solo in Europa, un punto di riferimento fondamentale per vivere l’ecumenismo nella quotidianità. Il volume si apre con una breve presentazione del cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, che invoca la benedizione del Signore per illuminare «la strada che ancora resta da compiere» per l’unità visibile della Chiesa. Segue l’introduzione, firmata da mons. Michele De Rosa, vescovo di Cerreto Sannita, delegato per l’ecumenismo della Conferenza Episcopale Campana, dall’archimandrita Georgios Antonopoulos, vicario arcivescovile per la Campania della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e di Malta, e il pastore Antonio Squitieri delle Chiese Cristiane Evangeliche della Campania; nell’introduzione, firmata il 25 dicembre 2009, si ripercorre il cammino ecumenico nel XX secolo, ponendo particolare attenzione alle vicende della Campania. Si ha poi l’Atto di costituzione, con lo Statuto e il Regolamento, che è stato approvato il 14 dicembre 2009 a Pompei, nella sede della Conferenza Episcopale Campana, e presentato il 24 dicembre a Napoli, in cattedrale, durante la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, quale segno concreto di un impegno che si rinnova e si rafforza proprio con la nascita del Consiglio regionale delle Chiese Cristiane della Campania.
Riccardo Burigana (Venezia)
Lettere a Timoteo e a Tito, Roma/Napoli, Società Biblica Britannica & Forestiera/ Editrice Domenicana Italiana, 2009, pp. 52
Con la pubblicazione di questa traduzione in lingua corrente delle lettere paoline a Timoteo e a Tito prosegue l’opera della Società Biblica in Italia per la diffusione della Sacra Scrittura, secondo una tradizione ormai consolidata, che si è venuta arricchendo negli ultimi anni con una serie di iniziative editoriali, spesso con il coinvolgimento delle comunità ecclesiali, come, solo per fare un esempio, è stato il caso della traduzione del vangelo di Matteo, che è stata possibile grazie al sostegno delle Chiese e delle comunità ecclesiali di Salerno, legate alla figura di Matteo da una lunga tradizione di devozioni e di studi. Nel caso delle lettere a Timoteo e a Tito la Società Biblica in Italia, grazie all’instancabile e preziosa opera del suo segretario, Valdo Bertalot, ha coinvolto in questo progetto di traduzione la diocesi di Termoli-Larino e le Chiese Valdesi del Molise, come si legge nella prefazione che porta la firma di mons. Gianfranco De Luca, vescovo di Termoli-Larino, e del pastore Daniele Garrone, decano della Facoltà Valdese di Teologia e presidente della Società Biblica in Italia. Con questa iniziativa si è voluto confermare «il comune impegno e la collaborazione fraterna delle Chiese nel servizio alla Parola di Dio, nella convinzione della necessità per tutti di una conoscenza diretta della Bibbia, essenziale per la fede, ma anche indispensabile per comprendere la nostra cultura e la nostra storia». La traduzione dei testi paolini si presenta chiara, nel tentativo di rendere il più accessibile possibile il testo al lettore del XXI secolo, accompagnata da un apparato più che essenziale di note, che sono arricchite da alcune brevi considerazioni finali sul lessico paolino. Il volume si conclude con l’elenco delle Chiese che hanno preso parte al progetto, dei membri del Comitato di traduzione, dei revisori, dei consulenti e dei referenti per le Chiese, cioè di tutti coloro che, a vario livello, hanno reso questa traduzione, che si configura come veramente ecumenica non solo per il livello di partecipazione al progetto, ma soprattutto perché si propone di offrire la Sacra Scrittura quale strada privilegiata di conoscenza reciproca tra cristiani per approfondire sempre più la comunione alla luce della Parola di Dio.
Riccardo Burigana (Venezia)
Le vie del dialogo. Teologia e prassi, a cura di P. Selvaggi, Fossano, Editrice Esperienze, 2009, pp. 127
Questa raccolta di saggi si colloca all’interno dell’ampia e articolata riflessione sul dialogo interreligioso; si tratta degli atti di un convegno internazionale, Le vie del dialogo: teologie e prassi, che si è tenuto a Roma, nel novembre 2006. Il convegno è stato promosso da una serie di istituzioni accademiche e pastorali, tra le quali si deve ricordare il Centro Studi Pietro Rossano, che da anni sostiene progetti e iniziative proprio per favorire lo sviluppo del dialogo interreligioso secondo l’insegnamento di mons. Pietro Rossano (1923-1991), che è stato uno dei pionieri del dialogo interreligioso, non solo in Italia. Il volume si divide in tre parti; nella prima, Le vie della teologia, si parla della posizione della Chiesa cattolica nei confronti del dialogo interreligioso a partire dal concilio Vaticano II, delle fonti neotestamentarie per il dialogo tra le culture, della dimensione del dialogo nella patristica, delle forme del dialogo interreligioso in epoca medievale e di una prima valutazione dell’opera di mons. Rossano quale fonte per il dialogo interreligioso nel XXI secolo. La seconda parta, Le vie della prassi, presenta l’attività di alcune realtà impegnate nella promozione del dialogo interreligioso, come il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, l’azione congiunta delle Chiese cristiane per il dialogo interreligioso, l’attenzione delle comunità islamiche e del mondo buddista nei confronti di questo tema. La terza parte, la più breve, contiene due brevi interventi sulla figura di Pietro Rossano del cardinale Paul Poupard e di mons. Rino Fisichella. Dalla lettura del volume emerge l’importanza del tema del dialogo tra le religioni e tra le culture nell’epoca contemporanea, soprattutto dopo il concilio Vaticano II, con la promulgazione di una serie di documenti, tra i quali la dichiarazione sulle religioni non-cristiane Nostra aetate, senza però tacere le radici storico-teologiche del dialogo e la presenza di questa attenzione all’altro anche in altre religioni.
Riccardo Burigana (Venezia)
A. Melloni, Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, Bari/Roma, Laterza, 2010, pp. 240
L’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni è stato uno dei testi più letti del XX secolo, non solo perché è stato visto come il testamento spirituale del «Papa buono», che la firmò a poche settimane dalla sua morte, quando la sofferenza per la malattia era chiaramente riconoscibile sul suo volto; non solo perché ha posto al centro della riflessione della Chiesa cattolica il tema della pace e del ruolo dei cristiani nella sua costruzione ripresentando un’efficace sintesi del magistero della Chiesa, pur con qualche suggestiva novità, ma soprattutto perché, a mio avviso, l’enciclica provocò un acceso dibattito su temi che continuano a essere estremamente attuali, oltre a aver influenzato la vita del concilio Vaticano II. Il dibattito sulla Pacem in terris coinvolse uomini e donne, ben oltre la loro appartenenza confessionale, provocando e al tempo stesso assicurando un’enorme circolazione all’enciclica, anche nei paesi comunisti dell’Europa orientale, dove essa veniva offerta ai cattolici per mostrare quanta sintonia ci fosse tra la Chiesa e il comunismo sul tema della pace, con una lettura ideologica e quindi parziale del testo di Giovanni XXIII. Alla storia redazionale dell’enciclica Alberto Melloni, docente di Storia del cristianesimo all’Università di Reggio Emilia, dedica un saggio, arricchito da un’ampia appendice, I documenti di lavoro, nella quale sono stati collocati, con rigore filologico, le diverse versioni dell’enciclica e una serie di documenti che illustrano i passaggi redazionali dell’enciclica e i vari interventi del papa proprio nella fase di redazione e di revisione del testo. La prima parte del volume ripercorre il contesto nel quale venne maturando la decisione di Giovanni XXIII di scrivere un’enciclica sulla pace, affidandone la prima redazione al teologo Pietro Pavan. L’autore analizza anche le opposizioni manifestate dagli ambienti curiali, coinvolti nella revisione della bozza di Pavan, in particolare dal domenicano Luigi Ciappi, maestro del Sacro Palazzo e futuro cardinale, mettendo in evidenza la decisa volontà del papa che seppe prevalere non mutando il contenuto dell’enciclica, ma anzi arricchendolo. Le ultime pagine sono dedicate alle reazioni alla pubblicazione dell’enciclica, dalla voce delle diplomazie, ai commenti italiani e agli effetti conciliari; per quanto sintetiche queste pagine offrono degli utili elementi per comprendere la pluralità delle forme della recezione della Pacem in terris, un tema sul quale non mancano gli studi che hanno permesso di ricostruire molte delle strade percorse da questa enciclica e la sua influenza nella Chiesa e nella società.
Riccardo Burigana (Venezia)
W. H. Neuser, Johann Calvin. Leben und Werk in seiner Frühzeit (1509-1541), Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2009, pp. 352
Nell’anno, nel quale viene celebrato il 500° anniversario della nascita di Calvino, la bibliografia sul riformatore svizzero si arricchisce di un interessante studio. Infatti Wilhlem Neuser, professore di Storia della Chiesa alla Facoltà di Teologia di Münster, dedica un’ampia e dettagliata ricostruzione all’opera e al pensiero del giovane Calvino, fino al suo ritorno a Ginevra. Neuser apre il suo lavoro con una presentazione, sintetica ma assai efficace, del clima culturale, non solo teologico, della Francia nella quale nacque Calvino, soffermandosi sui rapporti tra la monarchia francese e la facoltà di Teologia di Parigi e sulle principali opere religiose di quel periodo; in questa prima parte appaiono particolarmente appropriate le pagine dedicate alle fonti usate dall’autore per la ricostruzione della vita di Calvino fino al 1538, dalla documentazione edita e inedita, fino alla vita di Calvino a opera di Theodoro Beza. Si ripercorre la formazione di Calvino, dagli anni a Parigi (1523-1528), con la sua scoperta della centralità della Scrittura, fino agli studi di diritto a Orléans (1528-1532) e le sue prime iniziative a favore di una riforma religiosa a Parigi. Alla sua attività a Parigi Neuser dedica un ampio spazio, sottolineando alcuni elementi peculiari, a cominciare dall’influsso dell’opera di Faber Stapulensis, che contribuirono a definire il pensiero di Calvino e le sue priorità, tenuto conto della situazione nella quale si trovava la Francia, alle prese con una pluralità di istanze religiose, spesso in conflitto tra di loro, profondamente connesse alle vicende politico-dinastiche, che sarebbero esplose nel corso del XVI secolo con una lunga serie di guerre di religione, che nascondevano la lotta per la successione alla casa regnante dei Valois. La ricostruzione dell’attività di Calvino, in particolare nel suo soggiorno ad Angoulême (1534), assume un alto valore scientifico poiché si fonda non solo su un’attenta lettura dei suoi scritti, ma anche sul contesto nel quale egli si trovò a operare in questa fase della sua vita. La seconda parte del volume è dedicata al soggiorno di Calvino a Basilea (1535), dove il riformatore svizzero matura alcune convinzioni, che lo porteranno a differenziare il suo pensiero da quello di altri teologi, come Lutero, che erano, come lui, fortemente critici delle posizioni del papa e della prassi di molte comunità cristiane. Come una sorta di appendice a questa parte si trova il resoconto del soggiorno di Calvino a Ferrara, presso Renata di Francia, un soggiorno che tanta importanza ha avuto per la storia religiosa in Italia del XVI secolo, come è stato messo ben in evidenza negli ultimi anni da numerosi saggi storico-teologici. La terza parte affronta il primo soggiorno a Ginevra (1536-1538), dove Calvino commenta la Scrittura, pronuncia una serie di prediche sulla vita dei cristiani, si occupa della struttura della comunità cittadina, arricchisce la sua riflessione teologica, propone una serie di interventi contro coloro che per lui mettono in pericolo l’annuncio dell’evangelo, pur proclamandosi nemici di Roma; proprio questi interventi diventano il pretesto per il suo allontanamento da Ginevra. Infine l’ultima parte è dedicata al suo soggiorno a Strasburgo (1538-1541), da dove Calvino ha modo di vivere da protagonista la stagione dei Colloqui di religione (Hagenau, Worms, Ratisbona), voluti da Carlo V, per mettere fine alle tensioni religiose nell’Impero; per Calvino sono anni importanti, segnati della pubblicazione della Istitutio christianae religionis, di un commentario alla lettera ai Romani, di un breve trattato sull’eucaristia, oltre che della redazione della lettera al cardinale Jacopo Sadoleto sulla Chiesa. Poche considerazioni sul ritorno di Calvino a Ginevra concludono questo volume che si segnala come uno dei più efficaci contributi per la comprensione dell’opera di Calvino nel contesto nel quale essa venne maturando prima degli anni ginevrini.
Riccardo Burigana (Venezia)
W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita & Pensiero, 2010, pp. 384
Il testo del gesuita americano John O’Malley sul Vaticano II, tradotto in italiano dalla casa editrice milanese Vita e Pensiero, ha assunto un ruolo significativo nel panorama della vasta letteratura sull’ermeneutica conciliare. O’ Malley, docente alla Georgetown University, rivela, sin dall’introduzione, di voler collocare questo lavoro in uno spazio vuoto che spera di riempire: lo spazio di comprensione dell’evento concilio nella sua totalità. Si tratta, quindi, di un’opera di sintesi dalla triplice finalità: narrare i fatti principali del concilio, dal 25 gennaio del 1959 all’8 dicembre 1965; inquadrare la produzione dei testi conciliari nella più ampia cornice dei contesti storici, sociali e teologici; fornire una chiave ermeneutica che permetta il superamento delle categorie di «continuità» o «discontinuità». I primi due capitoli, che costituiscono circa un terzo del testo, sono dedicati alla determinazione del contesto che ha preceduto il concilio, contesto che l’autore periodizza in tre epoche: da Nicea a Trento, la Riforma e la modernità, la seconda guerra mondiale. Questa panoramica dall’alto permetterebbe di comprendere meglio le conseguenze durature di secoli che sono giunte alle porte del concilio e il perché esso venne a volte definito come «fine dell’epoca costantiniana» o «fine della controriforma». Questi facili appellativi non possono comunque assolvere dal duro compito di comprendere il concilio e le sue tensioni tutt’ora irrisolte, tensioni che O’Malley individua particolarmente presenti in «problemi-al-fondo-dei-problemi»: il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, il rapporto tra centro e periferia della Chiesa, lo stile di esercizio dell’autorità. L’essenza di tali problemi è l’equilibrio tra polarità teologiche e sociologiche opposte, che il concilio avrebbe tentato di tenere insieme. Il modo in cui sarebbe riuscito in questo compito potrebbe offrire, secondo O’Malley, una chiave ermeneutica per comprenderne più profondamente il suo ruolo dentro la storia della Chiesa. Dopo queste premesse, il gesuita offre nei restanti due terzi del testo una sintesi dei fatti, suddivisi in quattro anni, dal 1962 al 1965. L’apparato bibliografico rivela che la ricostruzione si appoggia prevalentemente agli Acta Synodalia e alla storia del Vaticano II di Alberigo-Komonchak, come l’autore stesso evidenzia nella prefazione. Le conclusioni, nell’ultima parte, i già nominati «problemi-al-fondo-dei-problemi», vengono ripresi e riletti alla luce dei documenti conciliari. Soprattutto l’ultimo, ovvero la questione dello stile di governo e di comunicazione della Chiesa, è quello che secondo O’Malley meglio distingue il Vaticano II dagli altri concili. E la scelta dello stile che il Vaticano II ha adottato non è scaturita solo da una preoccupazione pastorale, ma anche dalla volontà di assumere una identità. Il «che cosa» del discorso e il suo «come» sono inseparabili dal «chi» quel discorso lo pronuncia. Ultimamente, il testo di O’Malley tenta una generalizzazione dell’evento concilio fondata, forse, più sul contesto che sull’analisi testuale dei documenti e sulla storia della loro redazione. L’opera, lasciando volutamente aperte questioni che, per la mole dei documenti, sembrano non ammettere sino ad oggi soluzioni definitive e assolute, ha il pregio di offrire ad un tempo una narrazione divulgativa e un ampio spettro di categorie analitiche ed ermeneutiche.
Roberto Ranieri ofm (Milano)
K. Pavlowitch, Serbia. La storia al di là del nome, Trieste, Beit, 2010, pp. 351
Le vicende storiche della Serbia costituiscono un campo di ricerca particolarmente interessante per la comprensione delle dinamiche politiche e religiose dei Balcani per il ruolo assunto dalla Serbia fin dal Medioevo; si tratta di un tema sul quale si misura la difficoltà di una comprensione del passato che non sia puramente funzionale alla giustificazione delle stragi della fine del XX secolo che hanno insanguinato la regione, lasciando delle ferite tuttora aperte. La costruzione della pace passa, qui come altrove, anche attraverso una riconciliazione delle memorie, fondata sulla ricostruzione di cosa è realmente accaduto, senza omettere le pagine più dolorose della storia dei popoli balcanici. Da questo punto di vista il saggio di Stevan Pavlowitch, docente di Storia dei Balcani, all’Università di Southampton, si segnala per la chiarezza e il sufficiente distacco con il quale ripercorre le vicende storiche della Serbia, dopo aver dichiarato di non voler scrivere una storia della Serbia dal momento che non sarebbe in grado «di dare una definizione della Serbia che la descriva attraverso i secoli. Un’entità politica o territoriale che non ha mai avuto un’esistenza continuativa: le varie Serbie hanno preso forma e sono sparite di volta in volta, spostandosi nel corso del tempo.» L’autore sceglie di privilegiare le vicende degli ultimi due secoli, tanto che nel primo capitolo si dedica alle «serbie» che si sono susseguite dalle origini fino al XVIII secolo, tra principi, zar, patriarchi, turchi e austro-ungarici. I tre capitoli successivi trattano della storia della Serbia dall’inizio del XIX secolo fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale; è un periodo caratterizzato dalla nascita dello stato serbo e con il suo affermarsi come potenza della regione con una serie di rivendicazioni, appoggiate da un’abile azione di propaganda culturale, che portano alla creazione di un nuovo Stato, alla fine della Prima Guerra Mondiale, del quale la Serbia assume una posizione egemonica fino all’invasione italo-germanica, quando questo equilibrio viene distrutto. Il capitolo successivo è dedicato agli anni della frammentazione della Jugoslavia (1941-1945), quando la Serbia è sottoposta da una parte a una serie di attacchi persecutori tanto da sviluppare un forte sentimento nazionalista e dall’altra rimane forte l’idea della fedeltà alla Jugoslavia così come si era formata nel 1918. In questa situazione si afferma la figura di Tito, che regge le sorti della Jugoslavia fino alla sua morte nel 1980, con una serie di soluzioni di compromesso che non risolvono i problemi di integrazione tra le diverse tradizioni religiose, etniche e culturali della Jugoslavia, che viene sottoposta a un regime di polizia. I due capitoli seguenti cercano di comprendere le ragioni non solo della dissoluzione della Jugoslavia, ma anche del tunnel, gli anni bui, nei quali la Serbia si trova a vivere una volta iniziato il processo di autodeterminazione delle singole repubbliche. Nel volume una parte fondamentale è riservata al ruolo della Chiesa ortodossa serba, soprattutto negli anni della persecuzione, dal 1941 fino al 1980; nel 1990 l’elezione del patriarca Pavle è il tentativo di promuovere una riforma morale e teologica nella Chiesa per impedire lo scoppio del dramma della guerra civile. Il volume, che nella traduzione italiana è arricchito da una post-fazione di Antonio D’Alessandri, aiuta a comprendere la complessità della storia della Serbia, soprattutto negli ultimi due secoli, soffermandosi su alcuni passaggi fondamentali, come la seconda guerra mondiale e l’eredità di Tito.
Riccardo Burigana (Venezia)
M. P. Pedani, Venezia porta d’Oriente, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 334
La storia di Venezia è profondamente legata all’Oriente, tanto che proprio i legami con l’Oriente, dalla vicina Costantinopoli al lontano impero cinese hanno costituito un elemento fondamentale nel suo sviluppo, non solo economico, nel corso dei secoli, caratterizzando fortemente le sue istituzioni. Su questo tema non mancano gli studi, che hanno messo in luce i rapporti economici, politici, diplomatici, culturali tra Venezia e l’Oriente, nel tempo dalle prime attestazioni della formazione del nucleo storico di Venezia fino al presente; si tratta di un filone storiografico che ha consentito di comprendere il ruolo di Venezia nella storia dell’Europa e in Oriente, soprattutto nel mondo islamico, oltre che contribuire a una sempre migliore conoscenza delle complesse vicende storiche della Serenissima. A questo filone appartiene il saggio di Maria Pia Pedani, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che si propone di presentare i rapporti tra Venezia e l’Oriente, soprattutto con l’Islam, lungo tutto la storia della Repubblica di Venezia, dal suo apparire sul palcoscenico della storia nel VII secolo fino alla sua caduta il 12 maggio 1797. Nella sua ricostruzione l’autrice segue, solo in parte, un andamento cronologico, che abbandona dopo una sorta di introduzione, nella quale si muove tra miti e documenti storici, sulla nascita di Venezia e sugli inizi dei suoi rapporti con le comunità islamiche. Per il resto del volume l’autrice preferisce una struttura tematica così da offrire una serie di quadri sugli aspetti dei rapporti tra Venezia e l’Oriente che delineano un contesto molto articolato, come si è venuto costituendo nei secoli. I primi tre capitoli presentano le vicende storiche dei rapporti con l’Oriente dall’origine di Venezia e dal suo affermarsi come realtà politica indipendente dall’Impero Bizantino, dalla creazione di una rete commerciale nel Mediterraneo Orientale, in particolare con l’Egitto, alla partecipazione alle crociate, ai tentativi di costruire una pace duratura con l’Impero Ottomano pur di fronte a una crescente espansione territoriale della Repubblica fino al XVI secolo, quando più forti sono i contatti economici e culturali e gli scontri militari con il mondo islamico; una particolare attenzione è riservata all’affermarsi del culto di San Marco con il «recupero» del corpo del santo, il suo trasporto a Venezia e la tradizione, anche iconografica, di questo episodio della storia veneziana. Dopo questi primi tre capitoli l’autrice descrive il ruolo della diplomazia della Repubblica in Oriente, ma anche la presenza degli inviati dell’Impero turco a Venezia, con le difficoltà quotidiane che essi incontrano nel tentativo di vivere una città che alterna ospitalità e ostilità nei confronti di questi rappresentanti con i quali si deve mantenere un qualche rapporto in nome della suprema legge degli interessi economici ai quali è legata la sopravvivenza della Repubblica. Un capitolo è dedicato alla presenza dei Veneziani in Oriente, non limitandosi agli aspetti economici, ma spaziando su vari campi, tanto che questo capitolo ne introduce un altro nel quale l’autrice prova a paragonare le identità che si confrontano in questo rapporto di Venezia con l’Oriente; questo tema è centrale nell’ultima parte del volume dove viene anche accennato, brevemente, all’interessante aspetto della conoscenza e della memoria di Venezia negli scrittori turchi. Una dettagliata cronologia e un’ampia bibliografia conclude questo saggio che offre qualche elemento di riflessione su un aspetto della storia di Venezia alla luce di quanto già scritto in questi ultimi decenni.
Riccardo Burigana (Venezia)
S. Polmonari, Padre Basilio Brollo da Gemona in dialogo con la cultura cinese, Vicenza, LIEF, 2009, pp. 377
Il presente volume è la rielaborazione della tesi che l’autrice ha discusso nel novembre 2007 per il dottorato in teologia dogmatica presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Antonianum di Roma. La ricerca sulla figura e sull’opera del francescano Basilio Brollo (1648-1704) nasce da un suggerimento del francescano Roberto Giraldo, preside dell’Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino di Venezia, dove l’autrice ha conseguito la licenza in teologia ecumenica. Come si legge nella prefazione a questo volume Giraldo era stato colpito da una frase attribuita al prefetto di Propaganda Fide, che avrebbe definito il padre Brollo «il più grande missionario ch’abbiamo in tutto il mondo» una volta appresa la sua scomparsa: di fronte a questa affermazione pochi e frammentari erano gli studi su Brollo, almeno fino alla celebrazione del III centenario della sua morte, quando, pur in un contesto locale, erano emersi alcuni elementi che avevano rafforzato «la convinzione d’essere di fronte a un personaggio non comune sia per i suoi tempi come anche per i nostri». Si trattava quindi di ricostruire e di presentare l’opera missionaria di Brollo, anche alla luce di quanto era stato scritto su di lui nel corso dei secoli per cercare di individuare anche le cause di un oblio che aveva avvolto una figura tanto significativa dell’opera missionaria in Cina dell’ordine francescano in età moderna. Il volume si apre con un’ampia introduzione nella quale l’autrice ripercorre non solo il contenuto dei principali scritti di padre Brollo, ma anche le biografie su di lui, che testimoniano un interrotto interesse su questa singolare figura di missionario in Cina, pur presentando alcuni elementi puramente agiografici. Il primo capitolo è interamente dedicato «alle radici» culturali e spirituali di Brollo, da Gemona all’ordine francescano, dal luogo della sua nascita alla sua formazione, nel quale egli apprese della Cina e del suo mondo «tra immaginario e realtà». Alla Cina del XVII secolo, quella cioè con la quale Brollo fu chiamato a confrontarsi, è rivolto il secondo capitolo, mentre nel terzo l’autrice propone una storia delle missioni francescane in Cina, a partire dai primi tentativi nei secoli XIII-XIV, che ebbero una certa fortuna con la nomina del primo arcivescovo di Pechino, Giovanni da Montecorvino, fino al rinnovato impegno missionario nell’epoca post-tridentina con un breve accenno anche alla situazione del XX secolo. Nel quarto capitolo si affronta, in modo sintetico, ma sufficientemente chiaro e approfondito, la «controversia dei riti cinesi» della quale si ripercorrono le vicende storiche, ponendo l’accento soprattutto sulle difficoltà di carattere linguistico e sulle interpretazioni che di questa controversia sono state date nel corso dei secoli. I tre capitoli seguenti sono dedicati agli anni cinesi della vita di Brollo, dal suo avventuroso viaggio da Venezia fino all’Impero celeste, alle difficoltà che egli incontra nell’organizzare le comunità cristiane e nel promuovere l’opera missionaria; proprio nel trattare dell’evangelizzazione si parla delle parole spese sulla donna, ancora di grande attualità e per molti versi rivoluzionarie per questi tempi tenuto conto della condizione femminile nella Cina della fine del XVII secolo. Il capitolo ottavo affronta «le opere sinologiche» di padre Brollo con l’intento di recuperare la sua produzione teologico-pastorale, in particolare il Dizionario cinese-latino; questo capitolo offre alcuni elementi di novità, che lasciano intravedere possibili ulteriori sviluppi che l’autrice accenna solo anche per i limiti interpretativi che dipendono dalla sua nonconoscenza della lingua cinese; le opere di Brollo rappresentano una preziosa e per molti versi ancora inesplorata fonte per la comprensione del rapporto tra cristianesimo e mondo cinese, tanto più se teniamo conto dei temi affrontati dal missionario francescano, che dedica molte riflessioni «alla pastorale dei sacramenti e alla mediazione culturale», che l’autrice ripercorre, in modo convincente, nel nono e nel decimo capitolo. Nel capitolo successivo si descrivono gli ultimi avvenimenti della vita di Brollo, dalla nomina a vicario apostolico dello Xhaanaxi fino alla sua morte il 16 luglio 1704. Particolarmente interessanti appaiono le conclusioni, nelle quali l’autrice, al termine di un viaggio tanto documentato nel mondo francescano e cinese di Brollo, delinea il carattere dell’opera missionaria in Cina, sottolineando lo stretto legame tra annuncio e dialogo in una prospettiva che mantiene inalterata la sua ricchezza e la sua attualità. A rendere ancora più interessante questo volume è la traduzione dal cinese di un testo di Brollo sul rito del sacramento della confermazione, oltre che un’ampia e dettagliata bibliografia. Il presente volume ha il merito di contribuire così alla conoscenza dell’opera missionaria in Cina, attraverso il recupero dell’opera e della figura di padre Brollo, lasciando intravedere molte piste per ulteriori approfondimenti sulla strada di una sempre migliore comprensione del rapporto tra cristianesimo e mondo cinese nel corso dei secoli.
Riccardo Burigana (Venezia)
L. Porsi, Virginio Angioni. Carità senza limiti (1878-1947), Roma, Città Nuova, 2010, pp. 200
Il 20 dicembre 2004 è stato pubblicato il decreto di eroicità delle virtù di don Virginio Angioni, presbitero dell’arcidiocesi di Cagliari, fondatore dell’Opera del Buon Pastore: con questo decreto la fama di santità di don Angioni esce definitivamente dall’orizzonte della Sardegna per proiettarsi su un piano nazionale tanto che nel giro di pochi anni la sua figura è diventata sempre più familiare a coloro che ripercorrono le vicende storiche dell’assistenza della Chiesa Cattolica nella prima metà del XX secolo, oltre che per coloro che cercano una rinnovata ispirazione nella riscoperta di testimoni dell’evangelo, che mantengono la loro straordinaria attualità. Nel 2004 venne pubblicato per la prima volta questo volume da Luigi Porsi, postulatore di numerose cause di canonizzazione, con il quale offriva un primo profilo biografico di don Angioni; si tratta di «libretto che ha molti meriti. Oltre che di facile lettura, è breve ed essenziale; pur non avendo pretese storiografiche, ripetutamente lascia emergere l’impegno di ricerca coscienziosa e puntuale; è apologetico quanto basta», come scrive il card. Giovanni Canestri nella presentazione di questo testo che ha il merito di presentare la figura e l’opera di don Angioni in modo essenziale. Proprio per questi meriti, che si colgono tutti nella lettura di questo volume si comprende la scelta di ripubblicare ora questa biografia, con qualche lieve modifica, per promuovere una sempre più ampia conoscenza di don Angioni, che spese tutta la sua vita a sostegno di tanti «infelici» in nome della fedeltà all’amore evangelico. Uno dei meriti di questa ricostruzione biografica è l’ampio ricorso alla documentazione inedita, che peraltro non esaurisce la ricchezza spirituale di questa figura, dal momento che, talvolta, si sottolinea la necessità di ulteriori ricerche in grado di chiarire alcuni punti delle vicende storiche di don Angioni e della sua comunità, come per esempio quando don Angioni prova a creare una presenza stabile in Lombardia, per dare una prospettiva lavorativa ad alcune «suore» della nascente comunità in modo da testimoniare la vitalità dell’esperienza cristiana che si era venuta formando intorno a lui; dopo non poche difficoltà che, come scrive l’autore, «mette in evidenza quella innata tensione esistente tra legge e carisma, tra diritto e carità, tra normativa vigente e necessità pastorali». Si ha così un volume che senza voler essere esaustivo riesce a trasmettere la profondità spirituale e l’azione quotidiana nei confronti degli ultimi che caratterizzò la vita di don Angioni, segnando la comunità, non solo ecclesiale, di Cagliari nella prima metà del XX secolo.
Riccardo Burigana (Venezia)
C. Quaranta, Marcello II Cervini (1501-1555). Riforma della Chiesa, concilio, Inquisizione, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 496
Marcello Cervini è stato «un protagonista della vita religiosa e politica della prima metà del Cinquecento», tanto da giungere sulla cattedra di Pietro, eletto papa con il nome di Marcello II il 9 aprile 1555; si trattò di un conclave brevissimo, proprio per il consenso generalizzato che circondava la figura del Cervini, che morì poche settimane dopo la sua elezione, contribuendo così ad alimentare il mito del papa riformatore. Il volume della Quaranta, che ha dedicato molti anni della sua ancora giovane attività di ricerca proprio al Cervini e ai suoi tempi, presenta una ricostruzione biografica di questo straordinario cardinale, la cui famiglia era originaria di Montepulciano. La biografia si apre con un capitolo sulla sua formazione, dai primi passi nell’ambiente senese, con la sua frequentazione dell’Accademia Senese, fino al trasferimento a Roma, con la nomina a cardinale, con la quale cambia la sua vita. Infatti, oltre che essere scelto quale vescovo di Reggio Emilia pochi mesi dopo, Cervini comincia un’intensa attività diplomatica che lo porta in giro per l’Europa e, soprattutto, a contatto con esperienze cristiane, che risentivano profondamente delle istanze spirituali e riformatrici che stavano attraversando l’Europa, sotto varie forme. Alla sua partecipazione al Concilio di Trento l’autrice dedica un capitolo poiché la ritiene, a ragione, una tappa fondamentale nella formazione e nell’affermazione di Cervini, come un uomo di Chiesa, di grande moralità, di profonda erudizione e al tempo stesso di una certa sensibilità per i processi di riforma, come testimonia la sua partecipazione ai dibattiti sulla definizione della giustificazione e sulla natura della residenza dei vescovi. Cervini non abbandona il Concilio quando questo è «costretto» a trasferirsi a Bologna, ma anzi viene affermandosi come uno dei personaggi più autorevoli, anche per il rapporto fiduciario che ha con il papa, anche se non mancano delle velate critiche alle parole di Cervini, che per alcuni mostrano un’eccessiva accondiscendenza nei confronti degli «eretici». Le sue posizioni non nascono da questo, ma dal desiderio di promuovere una riforma culturale e morale nella Chiesa, che non ammette al suo interno presenze considerate eterodosse. Infine, si apre una nuova stagione nella vita di Cervini, quella del difensore dell’ortodossia cattolica, sotto papa Giulio III, del quale Cervini diventa uno dei più stretti collaboratori, impegnandosi nella lotta contro gli «spirituali» in Italia senza per questo abbandonare la prospettiva di coniugare la cultura umanistica, nella quale egli è cresciuto, con la teologia controversistica che diventa uno strumento indispensabile nella difesa della Chiesa, di fronte agli attacchi degli «eretici». Alla sua elezione e alle poche settimane del suo pontificato l’autrice dedica alcune pagine, che si segnalano, come il resto del volume, per la loro chiarezza, che nasce da un’approfondita conoscenza della bibliografia e dalla grande familiarità con le fonti coeve e con la documentazione inedita.
Riccardo Burigana (Venezia)
S. Rosso, La celebrazione della storia della salvezza nel rito bizantino. Misteri sacramentali, feste e tempi liturgici, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pp. 967
Stefano Rosso, salesiano, è noto per la sua profonda conoscenza della liturgia, alla quale ha dedicato numerosi e dotti studi, sempre con un’attenzione particolare alla vita quotidiana delle comunità cristiane, e per la sua appassionata vocazione per l’ecumenismo, che lo ha reso uno dei protagonisti del dialogo ecumenico non solo a Torino, dove risiede e insegna, ma in tutta Italia per la sua opera di traduttore di testi ecumenici, che sono confluiti in alcuni volumi dell’Enchiridion Oecumenicum. Dalla sua lunga esperienza di insegnamento in campo liturgico, che da alcuni anni è affiancato da quello dell’ecumenismo, nasce il presente volume con il quale l’autore si propone di presentare i riti sacramentali, le lodi divine e l’anno liturgico di rito bizantino, «con un’investigazione biblica, storica, teologica, spirituale, pastorale, giuridica» secondo le indicazioni del n. 16 della costituzione Sacrosanctum concilium del Vaticano II sulla liturgia, che rappresenta una delle stelle polari del suo insegnamento e della sua attività di ricerca. Si tratta di mettere a disposizione i testi liturgici con un ricco apparato di note introduttive e di commento, con il chiaro intento di indicare un campo di ricerca da approfondire nella prospettiva di favorire la conoscenza «di questo rito così ricco e suggestivo che affascina molti anche in Occidente», come scrive l’autore nella prefazione, nella quale insiste sulla provvisorietà del suo lavoro, che, seppur può essere ampliato e corretto, come ogni studio scientificamente serio, si segnala per molti meriti, tra i quali la precisione terminologica, l’accento ecumenico e la vasta bibliografia. Anche per questo il volume nella sua straripante ricchezza appare uno degli strumenti più interessanti, editi in Italia negli ultimi anni, per introdurre il lettore, anche il meno avvertito dal punto di vista ecumenico, nel mondo bizantino a partire dalla celebrazione della liturgia. Fin dal primo capitolo, interamente dedicato alla storia e alla natura del rito bizantino, si coglie la ricchezza e la profondità della riflessione dell’autore che ripercorre le vicende storiche della liturgia orientale, mettendo in evidenza le diverse «famiglie» presenti nel mondo orientale e introducendo alcuni elementi teologici per sottolineare la dimensione ecclesiologica e sacramentale della liturgia così come si sono venute affinando nel corso dei secoli. La prima parte del volume riguarda i misteri sacramentali, dall’iniziazione cristiana, cioè battesimo e crismazione, all’eucaristia, la divina liturgia, la liturgia dei presantificati, alla penitenza o riconciliazione, all’unzione dei malati, all’ordine sacro, al matrimonio, fidanzamento e incoronazione. La seconda parte comprende le feste e i tempi liturgici, le lodi divine, l’anno liturgico; in questa parte prende in esame il rapporto tra liturgia e tempo attraverso la lettura dei libri liturgici, della preghiera delle ore, dell’anno liturgico, con le feste e i tempi liturgici fino al lezionario biblico delle feste. Ogni tema trattato contiene un’introduzione con la quale l’autore radica il testo, del quale viene proposta una traduzione italiana, nel contesto biblico e nelle tradizioni che lo hanno determinato, ponendo un accento particolare sulla storia della liturgia, che costituisce una chiave privilegiata per comprendere le vicende storico-teologiche del cristianesimo orientale in tutte le sue articolazioni. Il continuo richiamo all’originale terminologia greca favorisce la comprensione della complessità e della ricchezza del mondo orientale che l’autore contribuisce così brillantemente a descrivere, rendendolo tanto prossimo al lettore. Una preziosa appendice con il calendario delle feste conclude questo volume che offre un’ampia e dettagliata presentazione della liturgia di rito bizantino con il chiaro intento di introdurre i cristiani d’occidente in un tanto complesso patrimonio teologico e spirituale che alimenta la ricerca dell’unità nella diversità.
Riccardo Burigana (Venezia)
Salvarani, Renzo Fabris. Una vita per il dialogo cristiano-ebraico, Bologna, EMI, 2009, pp 302
Con questo volume, che è la rielaborazione della tesi di dottorato, discussa alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, l’autore, esperto di dialogo interreligioso, docente, tra l’altro, proprio alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna di Bologna, membro del Comitato direttivo del Master in Dialogo interreligioso dell’Istituto di Studi Ecumenici di Venezia, non presenta semplicemente una biografia di uno dei più originali studiosi del dialogo ebraico-cristiano in Italia, ma consegna ai lettori una storia «profetica non nel senso di annunciare il futuro, ma di prepararlo», come ricorda Paolo Di Benedetti, nella breve prefazione a questo interessante saggio. Conclusa la lettura di questo affascinante volume, che si segnala anche per la ricca bibliografia con il quale è costruito, non si può che sottoscrivere quanto detto da Di Benedetti; infatti Salvarani dedica poche pagine, per altro in modo assai efficace, alle vicende puramente biografiche di Fabris del quale tratteggia il suo essere nel mondo, con i suoi molteplici impegni lavorativi, che lo portarono da Ivrea a Milano, fino alla Calabria, mettendo bene in evidenza il suo costante impegno di uomo votato al dialogo con gli ebrei, fondato sulla conoscenza l’uno dell’altro, dopo secoli di assordanti pregiudizi. Il dialogo con gli ebrei è stato possibile anche grazie alla celebrazione del concilio Vaticano II, al quale l’autore dedica un primo capitolo dal sapore puramente introduttivo, ma si sarebbe tentati di dire, soprattutto dopo aver letto il volume, senza ricorrere ai ricordi personali, che Fabris rappresenta uno di quei «profeti» che non hanno bisogno degli eventi della storia per preparare il futuro. Il terzo (La ricerca di Fabris sulle relazioni cristiano-ebraiche) e il quarto capitolo (Spunti originali) si fondano su una lettura puntuale, trasversale degli scritti di Fabris, che spaziarono in una molteplicità di generi letterari che Salvarani mostra di sapere bene percorrere proprio nella ricerca di quelle idee forti che costituiscono l’eredità più preziosa dell’opera di Fabris. Le piste aperte dalle riflessioni di Fabris sono ben indicate nell’ultimo capitolo (A partire dalla ricerca di Fabris: passi avanti, nodi ancora aperti e prospettive future), che non vuole proporre nessuna sintesi del pensiero di Fabris, ma, secondo lo spirito dello studioso prematuramente scomparso, vuole indicare delle piste su come procedere per costruire un mondo diverso, soprattutto nei rapporti tra cristiani ed ebrei, da quello nel quale si è celebrato il concilio Vaticano II. Per Salvarani, così come per Fabris, si deve andare oltre il Vaticano II, che pure si riconosce aver segnato un profondo cambiamento nella formulazione delle relazioni tra Chiesa cattolica ed ebraismo, soprattutto alla luce dei documenti promulgati, tra i quali spicca la dichiarazione Nostra aetate, che rappresentata una pietra miliare in questo campo. Le brevi considerazioni finali di Gian Domenico Cova, profondo conoscitore proprio della dimensione teologica-pastorale del dialogo ebraico-cristiano, contribuiscono ancora di più a mettere in rilievo l’importanza di questo saggio, che rappresenta una preziosa fonte e un utile strumento per comprendere quanto cristiani ed ebrei devono a Renzo Fabris.
Riccardo Burigana (Venezia)
K. Schelkens, Catholic Theology of Revelation on the Eve of Vatican II. A Redaction History of the Schema De fontibus revelationis (1960-1962), Leiden, Brill, 2010, pp. X, 295
La costituzione dogmatica Dei Verbum sulla rivelazione costituisce uno dei documenti più significativi del concilio Vaticano II per il suo contenuto e per la sua storia redazionale che comprende, e per certi versi riassume, le vicende storiche del Vaticano II, come stato messo in evidenza da molti, tra i quali mi piace ricordare le parole di Enzo Bianchi, che ha indicato proprio nella promulgazione della Dei Verbum l’elemento centrale del Vaticano II. Da un punto di vista puramente storico il dibattito sullo schema nella prima sessione conciliare, con la bocciatura del testo redatto nella fase preparatoria, il De fontibus revelationis, rappresenta uno dei passaggi fondamentali nella celebrazione del Vaticano II; proprio per il rilievo di questo passaggio non sono mancati, fin dalla conclusione del concilio, gli studi che si sono interrogati sul rapporto tra il progetto iniziale, il De fontibus revelationis, che tanta contrarietà suscitò al suo apparire in aula conciliare nel novembre 1962, così come era già avvenuto in sede di discussione dello schema nella Commissione Centrale Preparatoria, e la Dei Verbum, che venne promulgata il 18 novembre 1965; si trattava di studi che, spesso, hanno potuto attingere a materiale inedito che veniva così a integrare quanto noto al momento della presentazione del De fontibus. Proprio alla storia della redazione del De fontibus revelationis Karim Schelkens, giovane e brillante studioso fiammingo, ha dedicato la sua tesi di dottorato, discussa a Leuven, nel 2007, che ora viene pubblicata. Si tratta di un volume solido da un punto di vista documentario, grazie alle pluriennali ricerche che l’autore ha condotto in vari archivi, che in questi anni hanno promosso la raccolta e lo studio della documentazione inedita relativa al concilio Vaticano II; oltre a questa documentazione l’autore ha lavorato sulla sempre più vasta letteratura sul Vaticano II, arricchita dalla pubblicazione di nuove fonti, come i diari di alcuni protagonisti del concilio, e nuovi studi di ricostruzione storico-teologica e di interpretazione dei documenti conciliari. Il volume segue uno schema cronologico, aprendosi con l’analisi dei vota della fase preparatoria, sui quali non mancano degli studi di carattere tematico, dopo che un primo tempo erano stati sottoposti a una lettura per aree geografico-linguistiche; in questa prima parte è particolarmente interessante il tentativo, per molti versi riuscito, di collocare alcune questioni trattate dai vota nell’orizzonte più ampio, almeno dall’inizio del XX secolo, del dibattito sulla Scrittura, in senso lato, dalle regole per l’esegesi al rapporto tra scrittura e tradizione. L’autore presenta poi la composizione della Commissione Teologica Preparatoria, presieduta dal cardinale Alfredo Ottaviani, prima di ricostruire in modo dettagliato, le vicende redazionali del De fontibus revelationis, dal primo Schema compediosum del luglio 1960, con la creazione di una sottocommissione incaricata di redigere lo schema, sotto la presidenza di Salvatore Garofaolo, per passare poi alla redazione e alla discussione dei cinque capitoli dei quali si compone lo schema che viene definitivamente approvato dalla Commissione teologica nel settembre 1961. L’ultimo capitolo è dedicato al passaggio del De fontibus revelationis nella Commissione Centrale Preparatoria, dove non mancarono le osservazioni critiche e le richieste per una revisione dello schema, che molti ritenevano insufficiente per lo sviluppo dell’esegesi cattolica, non in linea con l’enciclica Divino Afflante Spiritu (1943) di Pio XI. Nelle conclusioni l’autore propone una sintetica lettura dell’apertura del Vaticano II e della discussione del De fontibus, con la sua bocciatura, della quale propone un’interessante, seppur discutibile, interpretazione. Lo studio è sostenuto da un apparato di note, nelle quali non mancano puntualizzazioni e messe in discussione su passaggi, questioni e vicende affrontate da altri autori in anni precedenti. Anche per questo il saggio di Schelkens, che da anni si occupa del Vaticano II con l’edizione di fonti e con saggi storico-teologici, si segnala per un serio e approfondito contributo alla comprensione della complessità del concilio Vaticano II fin dalla sua preparazione.
Riccardo Burigana (Venezia)
G. Scrofani, La religione impura. La riforma dell’imperatore Giuliano, Brescia, Paideia, 2010, pp. 190
Alla figura dell’imperatore Giuliano è dedicato un saggio di Giorgio Scrofani, dottore di ricerca della Scuola Normale di Pisa. Non si tratta di una ricostruzione biografica dell’imperatore romano, quanto di una puntale, e talvolta puntigliosa, analisi dei suoi testi per illustrare la politica condotta da Giuliano per de-cristianizzare l’Impero senza mettere in pericolo la sua stabilità. Il saggio ruota intorno alla categoria di «impurità» che l’imperatore Giuliano è chiamato a rimuovere in nome della tradizione, cioè l’impurità portata nell’Impero da parte della Chiesa; l’azione di Giuliano non appare semplice dal momento che deve confrontarsi con la condizione della Chiesa, che, dopo l’editto di Milano e il favore accordatele dall’impero Costantino, si è venuta espandendo e radicando ancora di più all’interno dell’Impero romano. Per l’autore il ricorso continuo a immagini mitologiche è funzionale in Giuliano all’azione di demolizione del cristianesimo, dal suo interno, mostrando i suoi limiti nel raccogliere l’eredità della cultura greco-romana della quale l’imperatore si sente il portavoce. Si delinea così una tensione tra la purezza di Roma, della sua storia, del suo pantheon di divinità, e l’impurità della Chiesa con i suoi gesti, dal battesimo al culto dei morti, che introducono degli elementi che per Giuliano sono completamente estranei alla tradizione romana e quindi vanno avversati, come tutto il cristianesimo; l’autore costruisce questa tensione, nella quale gioca anche un ruolo importante il confronto tra il passato di Roma e il presente della Chiesa, a partire da un’attenta lettura dei testi di Giuliano e a lui coevi. Proprio il ricorso ai testi, seppure pare appesantire, talvolta, la lettura, costituisce una delle peculiarità di questo volume, nel quale è presente un’ampia, plurilingue bibliografia sul cristianesimo e sulla società romana del IV secolo, che non solo mostra le competenze dell’autore, ma rappresenta un prezioso strumento per approfondire la figura, tanto controversa, dell’imperatore Giuliano e per orientarsi nelle vicende storico-teologiche di un secolo, il IV, fondamentale per la vita della Chiesa.
Riccardo Burigana (Venezia)
Shavuot. Cinque conferenze sulla Pentecoste di Elia Benamozegh, a cura di M. Morselli, Livorno, Salomone Belforte, 2009, pp. 117
Al pubblico dei lettori che già conosce ed apprezza gli scritti di Elia Benamozegh sarà molto gradita la recente uscita, nella Collana di studi ebraici della Casa editrice Belforte di Livorno, di un volume, a cura di Marco Morselli, che raccoglie cinque conferenze del grande rabbino livornese sul tema della Pentecoste ebraica, la festa di Shavuot, date alle stampe per la prima volta nel lontano 1886, successivamente per più di un secolo cadute nell’oblio ed ora finalmente oggetto di una nuova pubblicazione. È significativo osservare come, in questi ultimi anni, molte opere di Benamozegh abbiano visto nuovamente la luce: basterebbe ricordare, fra le più importanti, Israele e l’umanità, Morale ebraica e morale cristiana, L’origine dei dogmi cristiani, Storia degli Esseni, L’immortalità dell’anima, tutte ancora valide oggi e capaci di interessare e di stimolare i lettori non solo per la ricchezza del loro contenuto, ma anche per la capacità di esporre i molteplici e complessi aspetti della cultura e della spiritualità dell’ebraismo in modo chiaro e scorrevole, mostrandone tutta la bellezza e l’influenza sulla formazione della nostra civiltà occidentale. Benamozegh – ricordiamolo per chi gli si accostasse per la prima volta – pur essendo di origine marocchina, visse in Italia, a Livorno, nel corso del XIX sec., partecipando con passione ed entusiasmo alle complesse vicende storiche dell’epoca, fiero delle sue radici ebraiche, ma anche della sua italianità, convinto di poter contribuire, con il suo personale impegno culturale, religioso e civile, alla costruzione di una società più giusta, in cui i valori delle tre grandi religioni monoteiste, in particolare dell’ebraismo e del cristianesimo, non si sarebbero più contrapposti, ma sarebbero entrati in una fase di dialogo fecondo: per questo egli può essere considerato un vero e proprio precursore del dialogo interreligioso. Nella parte introduttiva dell’opera, Marco Morselli sottolinea come l’intento di Benamozegh fosse di esporre la parte non scritta, ma tradizionale della storia della Rivelazione sinaitica, con la sua «pleiade bella, edificante, graziosa, di fatti minori, di eloquentissimi particolari». L’attenzione all’universalità della Rivelazione è infatti costante in tutti gli scritti del Maestro: il matan Torah, cioè il dono della Torah, è rivolto non solo a Israele, ma a tutta l’umanità, che un giorno sarà capace di accoglierlo e di rigenerarsi in esso. L’ebraismo ha saputo custodire gelosamente e amorosamente questo dono, al tempo stesso però non abbandonando mai la sua prerogativa di farsi tutto a tutti, «di farsi come Elia piccino coi piccini per dar loro la vita, di esser latte pei bimbi, miele per giovani, vino per i vecchi… di avere un linguaggio per il popolo, un altro per i dotti… assumendo forme senza limite e senza fine quante sono le generazioni e gli individui che si succedono, sempre permanendo uno, sempre lo stesso, come l’acqua piovana che scende dal cielo… che diventa vino nelle viti, olio nelle ulive». Benamozegh possiede una grande fede nel miglioramento dell’umanità, nella sua capacità di poter progressivamente sempre più comprendere, percepire non solo con gli occhi, ma anche col cuore, la bontà di quel messaggio divino, di quella Legge assolutamente perfetta proclamata con forza sul Sinai, di cui neppure lo stesso Mosè poteva ancora cogliere totalmente la luce e la grandezza. Significativo è a questo proposito il racconto del Talmud che mostra il Profeta, ormai salito in cielo, intento ad ascoltare Rabbi Aqiva che spiega a numerosi discepoli la Legge di Dio, insegnando loro cose che Mosè stesso non conosceva né comprendeva. All’improvviso uno dei discepoli chiede ad Aqiva dove abbia imparato tutto quello che sta spiegando. La risposta del Rabbi: «Halakhah le-Mosheh mi-Sinai», cioè «È dottrina data a Mosè dal Sinai» rende bene quanto sia forte la convinzione, presente in Benamozegh e profondamente radicata nell’ebraismo, di quel progresso cui sopra abbiamo accennato. Il suono dello shofar, continuo e sempre crescente, che aveva accompagnato il prodigioso evento sul monte, indicava infatti, secondo il nostro Autore, non solo la perpetuità della Legge, ma anche «uno sviluppo sempre maggiore non già in Lei, che è sempre la stessa e sempre assoluta, ma negli uomini che la posseggono, nella sua intelligenza, nella sua pratica, nella sua diffusione». Tale suono inoltre era suono del nuovo Regno di Dio, suono di convocazione e di consacrazione del popolo sacerdote, perché «come la chioccia chiama i suoi pulcini, così la madre pietosa, la Shekhinah, convocava sotto le sue ali amorose ai piedi del Sinai i piccoletti figli». Nel giorno in cui era stata data la Legge, erano presenti in spirito presso il Sinai, secondo il Midrash Rabbah, non solo tutti i Profeti, ma anche, come sostengono i Dottori, tutte le anime presenti e future d’Israele e tutte le schiere degli Angeli: la terra tremò per ricordare a tutti che nulla è stabile quaggiù tranne Dio sempiterno, una fragranza celeste si diffuse ovunque, profondo fu il silenzio di tutto l’universo, espressione di una grande attesa. Proprio dalla Tradizione, come sottolinea Benamozegh sin dalla sua prima conferenza, veniamo a conoscere quei tanti aspetti della rivelazione del Sinai che non sono narrati nel testo biblico; è inoltre sempre la Tradizione che ci insegna a distinguere nei dieci comandamenti, definiti come “il discorso della corona”, i primi due che furono promulgati direttamente dalla divina onnipotenza dagli altri otto mediati dalla voce di Mosè. L’eterna verità si esprimeva sul Sinai in cento modi bellissimi, modulandosi e proporzionandosi secondo le forze fisiche e morali di ognuno, rivelandosi, come dicono i Dottori del Talmud, in settanta lingue diverse, cioè in tutte le lingue, perché tutti la comprendessero. Ma a chi la Rivelazione era rivolta? Secondo i testi scritturistici, solo agli uomini in modo diretto, mentre per la Tradizione, che interpreta in modo del tutto particolare le parole della Scrittura: «Parla prima alla casa di Giacobbe e poi ai figli d’Israele», essa in primo luogo era stata data alle donne, definite come “casa di Giacobbe”, in quanto le donne sono generalmente più disposte ai pensieri e alle opere della religione e si occupano dell’educazione della prole. Inoltre, aggiunge Benamozegh con quell’accento scherzoso che spesso troviamo nelle sue conferenze, «perché vedendo Iddio la mala prova che aveva fatto nella creazione il comandare prima all’uomo, trascurando la donna, volle nella Rivelazione cambiare registro per vedere se meglio così avrebbe riscosso la comune obbedienza». Ancora dalla Tradizione possiamo ricavare la data in cui fu data la Legge, il 6 o il 7 di Siwan, dal momento che la Scrittura non lo dice esplicitamente, pur facendocelo capire. Il tempo primaverile dell’evento, secondo Benamozegh, vuole significare che la religione non deve essere triste, gretta, misantropa, incapace di associare l’amore del bello, della natura, della poesia, all’ossequio dei precetti del Sinai. Nei testi biblici la festa di Pentecoste era considerata soltanto una festa campestre, collegata alla raccolta del grano, dalla quale però i Dottori avevano tratto spunto per sottolinearne non più semplicemente il carattere agronomico e civile, ma morale e legislativo. Il Decalogo infatti era stato donato al popolo d’Israele affinché fosse da lui interpretato e trasmesso di generazione in generazione fino ai giorni nostri. La Rivelazione era stata così affidata al popolo, che però non doveva ritenere di esserne l’esclusivo possessore: «Guai se Israele si credesse il popolo eletto nel senso odioso della parola, o per dir meglio, il popolo privilegiato. La sua elezione è un ministero, una servitù, una missione, un beneficio a vantaggio dell’universale… Israele sarà un popolo di sacerdoti che officia per il genere umano nel suo santuario, la Palestina». La regola sacerdotale è la Legge mosaica, quella comune è costituita dai precetti noachidi. Dal Sinai dunque scaturirono tutte le parti della Legge di Dio, tutti i precetti, anche i minimi. Benamozegh pensa che il loro numero sia molto antico, costituito molto prima dell’era rabbinica. Tutto infatti era stato già scritto in forma sintetica in quelle due tavole di pietra, da cui poi i Dottori ricavarono i 613 precetti, cuore pulsante dell’Ebraismo. Se la religione ebraica fosse stata opera di uomo, costui avrebbe cercato di facilitarne l’osservanza per attirare proseliti, Mosè invece fece esattamente tutto l’opposto, prova questa che il durissimo giogo della legge mosaica fu voluto dalla divinità. In particolare nella sua terza conferenza Benamozegh si sofferma a spiegare le valenze del numero 613, sottolineando che fra tutti i precetti 248 sono positivi e 365 negativi. L’antica anatomia riteneva che appunto 248 fossero le parti che compongono il corpo umano, mentre 365 sono i giorni dell’anno solare. Da tutto ciò si deduce, secondo la sua interpretazione, che l’uomo e il mondo, il microcosmo e il macrocosmo, sono retti da una Legge unica, creatrice e conservatrice dell’intero universo. L’uomo che liberamente sceglie di osservare tutti i precetti, o almeno ha il desiderio di farlo pur non avendone la possibilità, può salvarsi anche se ne ha rispettato uno soltanto, afferma il nostro Autore, basandosi su una consolidata tradizione espressa da famosi Dottori. La legge di Dio inoltre, come sarà immutabile nell’avvenire, così lo è stata anche per il passato. Benamozegh dedica molto spazio a tale affermazione proponendosi di dimostrare la preesistenza del mosaismo allo stesso Mosè con parole appassionate e piene di poesia: «Una verità… si faceva sempre e sempre più sfolgorante nell’animo mio, che la Rivelazione del Sinai non fu una pianta esotica, una novità, un fatto isolato senza precedenti… ebbe un’aurora come ebbe un crepuscolo… Mosè è un sole che sorge con i Patriarchi, tocca il meriggio sul Sinai, scende, declina, tramonta coi Profeti e coi Dottori. Egli sta in mezzo fra le due Tradizioni, l’una sua madre, l’altra sua figlia: una che lo precede, l’altra che lo segue». Si potrebbe ritenere la Rivelazione nata con Adamo quando si legge nel Genesi che «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel Gan Eden perché lo lavorasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Le parole “lo lavorasse” alluderebbero alle miswot positive, mentre a quelle negative farebbe riferimento l’espressione “lo custodisse”. Benamozegh insiste molto sul fatto che tutte le dottrine dell’ebraismo, tutti i suoi “dogmi” sono anteriori a Mosè non solo nei loro aspetti principali, ma anche nei minimi, e presenta per avvalorare la sua tesi una ricca serie di citazioni bibliche. In tal modo egli dimostra come l’esistenza e l’unità di Dio, la sua provvidenza, la creazione del mondo, la Rivelazione, la spiritualità dell’anima, le sue sorti oltremondane, l’esistenza degli Angeli, la necessità del culto e le sue modalità, la fede nella resurrezione, il simbolismo numerico, la benedizione e la santificazione del Sabato, le feste, i sacrifici, tutte le leggi religiose e civili trovino profonda radice nei tempi più antichi per essere poi amorosamente trasmessi di generazione in generazione e per essere osservati anche in avvenire: «Il Sinai non è un punto di partenza né un punto di arrivo… ma una tappa, una gran tappa di una religione nata con il mondo e che col mondo finirà, una stazione fra due paradisi … un mezzogiorno fra due crepuscoli, l’aurora e il tramonto». Nella parte finale del libro, in particolare nell’ultima conferenza, Benamozegh difende la Rivelazione mosaica dall’accusa di essere un privilegio concesso a un solo popolo a scapito di tutti gli altri, sottolineando con fervore che il Dio d’Israele è anche il Dio di tutti gli altri popoli. Tornando a spiegare ancora una volta il “privilegio” dell’elezione, si ribadisce che essa è innanzitutto una vocazione speciale a servizio di tutta l’umanità: Israele ha infatti il ruolo di mediatore tra la terra e il cielo, tra l’uomo e Dio. Gli Ebrei sono un mezzo dunque e mai un fine, fine che non risiede soltanto nel sacerdozio di Israele: tutto il genere umano infatti sarà benedetto in Israele e attraverso Israele. Ma la Parola del Signore si presenta in tanti modi anche ai Gentili, arrivando ad essi per mezzo della Rivelazione primitiva concessa ai Patriarchi, attraverso la legge naturale contenuta nel Pentateuco e comune a tutti i figli di Adamo e soprattutto attraverso la voce dei Profeti inviati da Dio come vindici del diritto, dell’innocenza, della giustizia non solo interna, ma di tutte le nazioni. L’umanità forma, spiega Benamozegh, una sola famiglia di cui Dio è il Padre supremo e Israele il figlio primogenito, in quanto fu unico fra tutti i popoli a riconoscere sin dai tempi più antichi il Dio unico e a praticare la sua Legge nell’attesa di tempi più propizi in cui tutto il mondo fosse maturo per riceverla. Per questo l’ebraismo è duplice: «Egli ha due leggi, due religioni, due regole, due discipline, la noachide… e la mosaica; la prima ad uso delle genti, la seconda d’Israele, la prima legge a tutti comune, regola del laicato universale, la seconda regola del sacerdozio… entrambe divine, eterne, necessarie, utilissime leggi, ma la mosaica ordinata e custodita quasi astuccio, fodero o vagina della noachide e quindi implicante obblighi specialissimi, eccezionali». Particolarmente significative sono infine le parole con le quali si conclude il libro e che testimoniano il calore e la passione che animavano Benamozegh e che ancora adesso riescono a infondere nel lettore una forte emozione: «L’ebraismo è una meraviglia, un miracolo, un capo d’opera di cosmopolitismo… Una religione siffatta è il più grande dei miracoli… Fermo adunque popolo di Dio nella credenza della sua verità… L’avvenire ti darà ragione come ti ha dato finora e l’Umanità che travagliasi nella ricerca di una religione ti renderà grazie di avergliela serbata incolume contro tutte le seduzioni e contro tutti i pericoli». Certamente una visione così ottimista dell’avvenire non avrebbe mai potuto immaginare la tragedia che si sarebbe abbattuta sul popolo ebraico nel corso del Novecento… Eppure forse ancora di più, dopo i drammatici eventi del secolo che da poco si è concluso, la voce di Benamozegh è capace di infondere speranza, capacità di resistenza, attaccamento a quei grandi valori nei quali egli aveva creduto. Il lettore odierno inoltre può rimanere certamente colpito non solo dal contenuto delle conferenze, ma anche dalla piacevolezza del linguaggio, dalla sua particolare vivacità e coloritura, talvolta da una bonaria ironia che certamente dimostrano come il Maestro riuscisse molto bene a catturare l’attenzione del suo pubblico e che ancora adesso possono renderci più gradevole la lettura. Dopo più di un secolo le riflessioni di Benamozegh non hanno perduto la loro validità, anzi forse possono essere comprese e condivise meglio oggi di quando sono state esposte per la prima volta, grazie proprio a quel “progresso” delle coscienze in cui il Maestro aveva posto tanto grande fiducia. In tale ottica le cinque conferenze su Shavuot possono offrire un notevole contributo all’approfondimento del significato di una festa molto importante per l’ebraismo, ma possono altresì stimolare una riflessione sulle radici della Pentecoste cristiana raccontata negli Atti degli Apostoli, che a Shavuot strettamente si ricollega (basti pensare, ad esempio, al fragore che si diffonde nel Cenacolo e che ricorda la voce dello shofar, o al miracolo delle lingue che si ricollega alla Rivelazione sinaitica avvenuta in settanta lingue diverse per indicare che era rivolta a tutta l’umanità). Giudico infine molto importante il contenuto del libro anche come contributo alla rimozione di quel turpe pregiudizio che per secoli – e purtroppo in qualche caso ancora oggi – ha portato e porta ancora a non comprendere correttamente e quindi ad interpretare in modo gravemente distorto il significato dell’elezione di Israele. La consapevolezza della dignità del suo regale sacerdozio esercitato in favore di tutta l’umanità dovrebbe essere presente in chiunque si dichiari amico del suo popolo, contribuendo così alla creazione di legami sempre più profondi di rispetto e di amicizia in vista della costruzione di un futuro migliore per tutta l’umanità.
Gabriella Maestri (Roma)
M. Simonetti, Il vangelo e la storia. Il cristianesimo antico (secoli I-IV), Roma, Carocci, 2010, pp. 303
«Pubblico un libro che non intende colmare alcuna lacuna, che non ha una destinazione specifica, ma che ho scritto solo per mio personale diletto»: con queste parole il lettore viene introdotto in questo viaggio nelle origini del cristianesimo; l’autore, docente alla Sapienza di Roma, è uno dei massimi esperti della storia del cristianesimo antico, al quale ha dedicato decenni di studio e numerose e significative pubblicazioni, che hanno contributo a comprendere meglio questa fase fondamentale della storia della Chiesa. In questo volume l’autore ripercorre le vicende del cristianesimo dalla predicazione di Gesù, alla nascita delle prime comunità nel I secolo, alla diffusione e all’organizzazione del crescente numero di comunità nella generazione post-apostolica e poi nel II secolo quando si sviluppa anche un nuovo rapporto con il mondo esterno. Del III secolo l’autore sottolinea l’ulteriore sviluppo del cristianesimo, con l’affermarsi di nuove comunità, l’apparire di nuove controversie dottrinali e soprattutto le ricorrenti tensioni con il potere romano, che sfociano in una serie di tentativi di ridurre la presenza dei cristiani; proprio questo aspetto, cioè le persecuzioni, apre la trattazione sul IV secolo, dominata dalle scelte di Costantino e dal profondo modificarsi della dimensione pubblica della Chiesa, che viene attraversata, come mette ben in evidenza l’autore, dalla controversia ariana, alla quale non mette fine la celebrazione del concilio di Nicea. Le vicende della seconda metà del IV secolo, nella quale Giuliano prima e Teodosio dopo sono i protagonisti assoluti con le loro proposte di contenimento e di sostegno alla Chiesa, determinano una svolta nella vita della Chiesa tanto più che, proprio grazie al favore imperiale, si viene riducendo la presenza ariana nelle comunità all’interno dell’Impero, ponendo termine a una dolorosa divisione. Una ricca e dettagliata bibliografia conclude questo volume, che si segnala, oltre che per la chiarezza dello stile che facilita la lettura, per la straordinaria capacità dell’autore di presentare la complessità delle origini del cristianesimo in modo avvincente, offrendo notizie e interpretazioni, che aiutano il lettore, anche meno avvertito, a comprendere le dinamiche storiche dei primi secoli del cristianesimo.
Riccardo Burigana (Venezia)
Transformations of Late Antiquity. Essays for Peter Brown, ed. by Ph. Rousseau – M. Papoutsakis, Farnham, Ashgate, 2009, pp. 345
Peter Brown è uno dei più straordinari studiosi del cristianesimo delle origini del XX secolo; i suoi studi hanno aperto piste di ricerca fondamentali per la comprensione della complessità dei primi secoli delle comunità cristiane, soprattutto in rapporto tra queste comunità e il mondo culturale, economico e spirituale con il quale il cristianesimo si dovette confrontare e dal quale il cristianesimo venne influenzato; da questo punto di vista le pagine dedicate da Peter Brown a Sant’Agostino, a più riprese, nella sua vasta produzione scientifica, sono esemplari e costituiscono un modello per chi voglia inoltrarsi nella conoscenza delle ricchezze e delle peculiarità del cristianesimo del tardo impero romano e dei primi secoli dell’età bizantina. Le lezioni e gli scritti di Peter Brown hanno formato centinaia di studiosi, che hanno avuto modo, in più occasioni, di esprimere il proprio debito intellettuale, tanto che in questi anni non sono mancati studi dedicati a lui da allievi e semplici estimatori della sua opera. Il presente volume rientra in questa categoria; infatti vuole essere un omaggio a Peter Brown fin dalla formulazione del titolo dal momento che Brown ha analizzato con grande attenzione la categoria della «trasformazione dell’eredità classica», come uno dei temi fondamentali per comprendere lo sviluppo del cristianesimo delle origini. In questa raccolta, curata da Philippe Rousseau della Catholic University of America, e da Manolis Papoutsakis della Princeton University, si affrontano alcuni aspetti di questa «trasformazione», ponendo l’accento soprattutto sulle vicende storiche dei secoli VI-VIII dell’Oriente, in una rassegna di studi sulla vita e sulla produzione letteraria a Costantinopoli del VI secolo, alle prime controversie cristiano-islamiche e alle dinamiche sociali in Persia tra la fine dell’Impero Sassanide e l’arrivo dei musulmani, in un momento particolarmente significativo nella costruzione dell’islam e nella sopravvivenza del cristianesimo in quella regione. I contributi, pur nella loro varietà, offrono degli elementi per una sempre migliore comprensione della «tarda antichità», come momento di nascita di una nuova società e di una nuova cultura, proseguendo così la tanto meritoria opera storiografica di Peter Brown.
Riccardo Burigana (Venezia)
Ulohogian, Gli armeni, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 228
L’autrice, che ha insegnato per decenni Lingua e letteratura armena all’Università di Bologna, presenta una sintesi, chiara, articolata e suggestiva del mondo armeno nel corso dei secoli. Il volume si apre con un capitolo nel quale si descrivono i confini fisici e storici dell’Armenia fino all’istituzione della Repubblica di Armenia dopo la caduta dell’Unione Sovietica, soffermandosi sui colori, sui prodotti e sulle risorse naturali dell’Armenia. Nel secondo capitolo si parla delle vicende storiche, a partire dall’esistenza stessa di un’Armenia prima degli armeni, cioè dalle presenze in Armenia nel III e nel II millennio prima di Cristo fino alla prima menzione dell’Armenia nelle iscrizioni di Dario il Grande a Behistum (518 a.c) e alle tradizioni orali, codificate nel V secolo nell’opera di Mosè di Corene, sulla nascita dell’Armenia. Si passa poi alla storia dell’Armenia tra la Persia, Roma e Bisanzio, con un rapido accenno alla cristianizzazione dell’Armenia, che è l’oggetto del terzo capitolo. Si ripercorre il periodo dell’occupazione araba con la formazione di una serie di principati autonomi, legati ad alcune famiglie, fino alla creazione, nell’XI secolo, della Grande Armenia, che riesce a sopravvivere anche alle incursioni dei mongoli fino a concludere la propria esistenza nel XIV secolo. I secoli seguenti sono segnati da una profonda crisi politico-economica, tanto che aumenta l’immigrazione verso l’estero e si accentua la dipendenza dai principati circostanti, fino alla «spartizione» dell’Armenia tra l’Impero Ottomano e l’Impero zarista. L’autrice dedica alcune pagine al genocidio del popolo armeno compiuto dai turchi durante la prima guerra mondiale, presentando gli eventi con un grande equilibrio e con ampi riferimenti agli studi di questi ultimi anni; si parla poi delle vicende della Prima e della Seconda Repubblica Armena fino all’annessione nell’URSS, che conduce una politica per la rimozione delle peculiarità della tradizione armena. Nel 1988, anche in conseguenza della politica di Gorbaciov, si apre una nuova fase della storia dell’Armenia che conduce alla proclamazione dell’indipendenza della Terza Repubblica Armena, il 21 settembre 1991. Il terzo capitolo tratta della Chiesa Armena dalle origini, da una parte dell’opera missionaria di origine siriaca e dall’altra l’azione di Gregorio Illuminatore che porta alla conversione del re armeno e alla decisione di fare del cristianesimo la religione del regno armeno. Si ricostruisce la creazione della struttura della Chiesa Armena, con l’istituzione del Catholicos e dei controversi rapporti prima con Costantinopoli e poi con Roma, che cerca di procedere alla latinizzazione della Chiesa Armena, che vive una lunga stagione di frammentazione e tensioni; si giunge così alla creazione dell’ordine mechitarista, che ha sede a Venezia, nel 1704, e all’istituzione del patriarcato cattolico della Chiesa Armena nel 1742, con una divisione che permane tuttora. Il quarto capitolo è dedicato alla cultura armena, dalla lingua, con la creazione dell’alfabeto e con la traduzione della Bibbia e di molti altri testi, fino all’emergere di una letteratura originale nel VI secolo fino all’epoca contemporanea. In questo capitolo ampie citazioni rendono la ricchezza della letteratura armena, che è stata sostenuta da un’intensa attività editoriale degli armeni, anche fuori dai confini dell’Armenia. Proprio agli armeni nel mondo, alla «diaspora», viene dedicato un capitolo dove si passano in rassegna le colonie armene in Asia Minore, in Persia, in India, in Estremo Oriente, in Egitto, in Palestina, in Etiopia, in Crimea, in Europa Orientale, in Russia, in Italia, dove tracce degli armeni si trovano fin dal primo secolo a.C., con successive presenze legate alle truppe bizantine e all’esperienza religiosa, mentre solo nei secoli XIII-XIV cominciano a comparire delle vere e proprie comunità, che si diffondono lungo la penisola. Nel ventesimo secolo il popolo armeno ha vissuto una nuova diaspora prima al momento dell’annessione della Repubblica Armena nell’URSS e poi una seconda negli ultimi decenni quando le condizioni economiche hanno determinato l’immigrazione di molti armeni, soprattutto verso gli Stati Uniti. Una bibliografia selecta sull’Armenia conclude questo saggio che non solo aiuta a entrare nel mondo armeno un lettore semplicemente interessato, ma offre molti spunti di riflessione e di approfondimento a chi vuole comprendere l’importanza della tradizione armena nella civiltà occidentale.
Riccardo Burigana (Venezia)
Il Vaticano II in Emilia Romagna. Apporti e ricezioni, a cura di M. Tagliaferri, Bologna, EDB, 2007, pp. 520
Nel dicembre 2006 il Dipartimento di teologia dell’evangelizzazione della Facoltà di Teologia dell’Emilia Romagna ha organizzato un convegno su L’apporto della Chiesa di Bologna al concilio Vaticano II e la ricezione del concilio nelle Chiese dell’Emilia Romagna con lo scopo non solo di fare un bilancio degli studi su questo tema, ma anche di promuovere nuove ricerche, soprattutto nel campo della recezione del concilio Vaticano II in una comunità locale. La pubblicazione degli atti, a cura di Maurizio Tagliaferri, docente di Storia della Chiesa della Facoltà e segretario generale dell’Associazione italiana di professori di storia della Chiesa, offre un interessante contributo alla conoscenza del Vaticano II, indicando al tempo stesso itinerari per ulteriori ricerche. Il volume si articola in due parti asimmetriche; nella prima si affronta il tema della Chiesa di Bologna e il concilio Vaticano II con due significativi interventi che trattano di due aspetti circoscritti ma assai significativi per la storia del Vaticano II e della sua recezione: il ruolo del cardinale Lercaro nei lavori del Vaticano II, dai suoi interventi in campo liturgico e nel dibattito ecclesiologico fino alla sua partecipazione al dibattito sul dialogo tra Chiesa e mondo contemporaneo, e il contributo della Chiesa bolognese, con particolare riferimento a don Giuseppe Dossetti, alla riflessione conciliare sulla modernità. Questa prima parte si conclude con una appassionata testimonianza di mons. Luigi Bettazzi, attualmente vescovo emerito di Ivrea, al tempo del concilio vescovo ausiliare di Bologna, sul concilio nella vita della Chiesa e del mondo. La seconda parte è interamente dedicata a una presentazione della celebrazione del concilio e della recezione di alcuni aspetti nelle realtà diocesane dell’Emilia Romagna, compresa l’arcidiocesi di Bologna; particolare rilievo, nella prospettiva di un recupero complessivo del ruolo dei vescovi e delle diocesi italiane al Vaticano II, sono le pagine dedicate alla Conferenza Episcopale emiliana e flaminia, dal momento che si tratta di un tema, le Conferenze episcopali regionali e il Vaticano II, spesso ignorato dalla storiografia, nonostante il ruolo giocato dalle Conferenze episcopali regionali durante il concilio e poi, soprattutto, nella promozione e nell’orientamento della recezione dei documenti conciliari. Attraverso contributi di diverso spessore, anche in relazione alla disponibilità delle fonti e ai personaggi trattati, si viene configurando un quadro assai articolato della partecipazione dell’episcopato dell’Emilia Romagna al Vaticano II, con alcune interessanti novità nella definizione delle forme e del contenuto della prima recezione del concilio, come nel caso dell’arcivescovo di Ravenna mons. Salvatore Baldassari, uno dei più attenti sostenitori dell’aggiornamento conciliare. Il volume, che si segnala per il rigore scientifico con il quale sono affrontati i vari temi, non solo contribuisce in modo significativo alla conoscenza della storia della partecipazione della Chiesa in Italia al Vaticano II, ma mostra la necessità di procedere, nell’avvicinarsi al 50° anniversario dell’indizione del Vaticano II, a un recupero sistematico della memoria della partecipazione dei vescovi e della prima recezione del Vaticano II nelle diocesi in Italia, in modo da abbandonare le eccessive semplificazioni ideologiche che, spesso, hanno frenato la conoscenza di come vissero e cosa compresero i vescovi e i fedeli in Italia del Vaticano II durante la sua celebrazione.
Riccardo Burigana (Venezia)
«Viva ed efficace è la parola di Dio». Linee per l’animazione biblica nella pastorale, a cura di Corrado Pastore, Leumann (To), LDC, 2010, pp. 334
Una citazione dal Salmo 119 apre la presentazione del card. Angelo Bagnasco a questo volume miscellaneo con il quale l’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana ha voluto rendere omaggio al salesiano Cesare Bissoli per il suo lungo, appassionato e originale impegno nell’animazione biblica della pastorale. Durante quasi un cinquantennio questo impegno si è manifestato in molte forme, dall’insegnamento all’Università Salesiana al coinvolgimento diretto di Bissoli nella Conferenza Episcopale Italiana, con una responsabilità diretta nel campo della catechesi e dell’apostolato biblico, fino all’assunzione di ruoli anche a livello mondiale proprio per promuovere la diffusione della Scrittura, anche in prospettiva ecumenica. Proprio l’instancabile passione per il Libro Sacro ha segnato profondamente la vita di Bissoli che si è richiamato spesso al concilio Vaticano II, in particolare al capitolo VI della costituzione Dei Verbum sulla rivelazione, mostrando quanto la ricezione conciliare, nel senso di un aggiornamento della dottrina e della pastorale, dipendesse dalla scoperta di un nuovo modo di leggere e vivere la Scrittura. In questa opera Bissoli si è segnalato per una sensibilità e una competenza, che lo ha reso un personaggio unico nel panorama italiano: con il presente volume non si è voluto semplicemente celebrare la sua opera ma, secondo il suo insegnamento, «trattare alcuni aspetti significativi in modo da acquisire delle utili linee per l’animazione biblica della pastorale», come ricorda Corrado Pastore nella breve introduzione al volume nel quale compaiono interventi di vescovi come mons. Bruno Forte, mons. Luciano Pacomio e mons. Carlo Ghidelli, di docenti, come Mario Cimosa e Riccardo Tonelli, esperti nel campo dell’insegnamento della religione cattolica, come Franca Feliziani Kannheiser, e di biblisti impegnati nella traduzione interconfessionale della Scrittura, come Carlo Buzzetti, recentemente scomparso. Il volume comprende 22 contributi, articolati in quattro ambiti: gli elementi di fondazione biblico-teologica, gli elementi di contenuto in vista dell’azione pastorale, gli elementi attinenti la comunicazione e i riferimenti ai destinatari, secondo un’organizzazione ispirata agli interessi che hanno guidato Bissoli nel suo lungo impegno a favore di una sempre migliore conoscenza della Scrittura. Il volume si conclude con un contributo dello stesso Bissoli (Con la Bibbia al servizio della Chiesa oggi. Un percorso bibliografico), con il quale l’autore si ripromette, riuscendovi, di «fare una lettura interpretativa delle cose pubblicate, prima con uno sguardo di insieme e poi in maniera più analitica».
Riccardo Burigana (Venezia)
A. Zannini, Venezia, città aperta. Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII sec., Venezia. Marcianum Press, 2009, pp. 174
Lungo i secoli la città di Venezia è stata profondamente segnata dall’incontro e, talvolta, dallo scontro delle istituzioni veneziane con l’altro, lo straniero, tanto che si potrebbe affermare che la stessa straordinaria storia della Repubblica di Venezia dipenda fortemente dal rapporto tra la città, con le sue tradizioni religiose, le sue problematiche economiche, il suo patrimonio culturale, con gli stranieri che di volta in volta hanno incrociato le loro storie con Venezia. Proprio al rapporto tra Venezia e gli stranieri al tempo della Repubblica Andrea Zanini dedica un saggio, breve, ma assai interessante e suggestivo; l’autore, al quale si devono numerosi e significativi contributi sulla storia di Venezia in età moderna, si confronta con le dinamiche economiche, religiose e sociali della Repubblica di Venezia, facendo ricorso a categorie che proiettano le vicende di secoli passati nel presente della società italiana, chiamata a confrontarsi con il fenomeno globalizzante delle migrazioni. Nel ripercorrere, in modo necessariamente sintetico, le vicende storiche che vanno dal XIV secolo fino alla conclusione della Repubblica, l’autore affronta alcuni temi sempre in una prospettiva cronologica in modo che il lettore si trovi a confrontarsi con gli attori di questo rapporto tra Venezia e lo straniero nel loro mutare nel corso dei secoli. I primi due capitoli sono dedicati all’affermarsi di Venezia, come potenza commerciale e politica del Mediterraneo, mettendo in luce le conseguenze che questo ruolo determina nella composizione della città, che non solo diventa il crocevia di un processo migratorio, ma assume una nuova fisionomia con la comparsa delle «nationes» al suo interno. Nel corso del XVI secolo, anche in seguito al processo di confessionalizzazione in atto in Europa, Venezia viene coinvolta in questo processo, senza però perdere il suo carattere cosmopolita, reso necessario dalle sue dinamiche economiche: viene così descritto il passaggio dai «prestatori ebraici, setaioli lucchesi e mercanti fiorentini» del tardo medioevo agli «infedeli, ebrei ed eretici» della prima parte del XVI secolo per poi passare al rapporto tra religioni e commerci nella seconda parte del secolo, che introduce la ricostruzione dei rapporti tra armeni, ebrei e turchi nei due secoli successivi. Gli ultimi tre capitoli sono dedicati alla vita degli stranieri a Venezia, dalla loro collocazione fisica nella città, al rapporto con il lavoro, alle categorie, «emarginati e mendicanti, visitatori e granturisti», alle quali si può far ricorso per provare a delineare il mondo degli stranieri a Venezia. Con questo volume si inaugura la collana di studi Metropoli, ideata dalla casa editrice Marcianum assieme alla Fondazione del Duomo di Mestre e curata da Tiziana Agostini, con la quale si vuole indagare «la dimensione urbana, nei suoi aspetti sociali, culturali, religiosi, economici e politici» per promuovere una riflessione sul futuro: questo agile volume risponde pienamente agli scopi della collana, oltre che introdurre, con stile brillante, ai mille colori della memoria interconfessionale, interreligiosa e interculturale di Venezia.
Riccardo Burigana (Venezia)
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