Per una rassegna stampa sull’Ecumenismo
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani
Ramón Peralta (Delegato per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della diocesi di Sulmona-Valva)
«Veritas in caritate»
Come di consueto dal 18 al 25 gennaio 2009 si celebrerà la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, il cui tema è tratto dal profeta Ezechiele “Essere riuniti nella tua mano” (37, 17).
Oggigiorno si constata come in ogni parte del mondo le divisioni creano sempre più discordia, intolleranza e violazione dei diritti umani e le notizie riguardanti tanti cristiani sono altrettanto allarmanti perché essi per la loro fede in Cristo sono discriminati, disprezzati e martirizzati. Nonostante questa situazione le chiese cristiane desiderano mantenersi fedeli al vangelo e vivere fino in fondo la preghiera di Gesù: Padre che “siano anch’essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21). L’unità nella fede, nella speranza e nella carità è il programma di vita dei discepoli di Cristo.
Per attuare la volontà di Dio riguardo all’unità del suo popolo è necessario proclamare coraggiosamente la sua Parola, la sua presenza e la sua vicinanza amorevole per intraprendere un itinerario di conversione e di solidarietà fraterna. Superare le divisioni è opera di Dio, Egli con la disponibilità di uomini e donne potrà costruire una nuova creazione, un nuovo popolo chiamato ad essere segno di speranza per l’umanità.
L’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani avrà come ispirazione biblica i seguenti spunti: unità come volontà di Dio per il suo popolo, unità come dono di Dio che reclama conversione e rinnovamento, unità come nuova creazione e come speranza che il popolo di Dio possa essere nuovamente uno.
Saremo invitati a pregare per tutte le situazioni in cui sia necessaria una rappacificazione e a meditare su come poter superare tutte le nostre divisioni. Nel primo giorno pregheremo affinché Dio conceda vita e riconciliazione alle nostre aridità e divisioni. L’intenzione del secondo giorno sarà concentrata sul nostro impegno per mettere fine alla violenza e alla guerra e perché i cristiani che vivono nei paesi di conflitto portino pace. Nel terzo giorno si rifletterà sullo scandalo del divario sempre più grande tra ricchi e poveri, e sulla missione cristiana per combattere la povertà con la solidarietà e la sobrietà. Il quarto giorno la supplica rivolta al Creatore sarà quella di incrementare nel cuore dei cristiani la responsabilità comune sulla salvaguardia del creato come un bene per tutti e di glorificazione a Dio. Il quinto giorno chiederemo al Signore di farci comprendere e vivere la propria e l’altrui dignità, per superare ogni forma di discriminazione e rispettare le differenze. Nel sesto giorno presenteremo nella preghiera tutti coloro che soffrono materialmente, fisicamente e spiritualmente, perché il sostegno cristiano a qualunque forma di sofferenza è segno evidente del regno di Dio. Nel settimo giorno tenendo presente il pluralismo religioso pregheremo per intensificare il dialogo interreligioso senza mai perdere l’identità cristiana della fede consapevoli che tutti i credenti e tutta l’umanità cammina verso il destino finale di amore e di salvezza. L’ottavo giorno invocheremo Dio perché dia ai cristiani lo spirito delle beatitudini per essere strumenti dell’unità voluta da Cristo per i suoi discepoli.
Anche quest’anno le parrocchie e le comunità della nostra diocesi pregheranno per l’unità dei cristiani. La settimana si concluderà il 25 gennaio 2009 nella Cattedrale di San Pelino a Corfinio nell’anno giubilare del bimillenario della nascita dell’apostolo Paolo con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo di Sulmona-Valva Mons. Angelo Spina.
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Ecumenismo in Toscana: cresce la presenza di ortodossi
Silvia Nannipieri (Commissione per l’Ecumenismo e il dialogo della diocesi di Pisa)
«Toscana Oggi»
Annunciare insieme il Vangelo, andare l’uno incontro all’altro, operare insieme, pregare insieme e proseguire i dialoghi», questo enunciato del II capitolo della Charta Oecumenica («In cammino verso l’unità visibile delle Chiese in Europa») esprime bene i propositi e gli intenti che hanno caratterizzato i lavori della Commissione per l’ecumenismo della Conferenza episcopale toscana negli ultimi anni. La diffusione della Carta Oecumenica nelle parrocchie toscane è stata infatti il primo atto pubblico, per così dire, della nuova presidenza, quella di mons. Rodolfo Cetoloni, vescovo di Montepulciano-Chiusi-Pienza, che veniva a raccogliere l’eredità dei lunghi anni di mons. Alberto Ablondi, grande profeta e testimone di ecumenismo.
La Commissione regionale, che raccoglie i delegati diocesani per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Toscana, si riunisce solo poche volte all’anno ma è uno strumento importante di confronto, di comunicazione, di scambio e come tale anche di crescita e di formazione. Quasi tutte le diocesi vi partecipano costantemente. Il prossimo appuntamento è previsto per febbraio e sarà così possibile fare il punto sulle iniziative prese per la Settimana di preghiera nelle varie diocesi e le novità sulle presenze di altre chiese cristiane sul nostro territorio. Negli ultimi anni, infatti, se il numero di valdesi, metodisti, battisti e luterani è rimasto più o meno stabile, è invece andato crescendo il numero di chiese ortodosse presenti in Toscana. La crescente immigrazione dai Paesi dell’Est Europa ha fatto sì che abbiano cominciato ad arrivare anche sacerdoti per la cura pastorale e alcune diocesi hanno concesso parrocchie per celebrare la Divina Liturgia e perché possano essere punti di riferimento per i fedeli ortodossi. Non solo a Firenze ma anche in Diocesi più piccole come a Lucca, ad esempio, dove è stata recentemente istituita una parrocchia ortodossa rumena nella chiesa di S. Anastasio. Cresce dunque l’impegno, si allargano gli orizzonti e a dispetto delle innumerevoli difficoltà che sempre si presentano a chi vuole aprire cammini, rimuovere ostacoli sulla strada verso il Regno, si moltiplicano le opportunità per conoscere modi diversi di esprimere e di celebrare la medesima scelta cristiana.
In Toscana esistono poi esperienze particolari nel campo dell’ecumenismo come la comunità di Rondine (Arezzo) attiva in particolare nel dialogo culturale tra cattolici e ortodossi o le più note e più «antiche» esperienze di Nomadelfia o Loppiano che praticano un ecumenismo pratico, si potrebbe dire «domestico». La tradizione ecumenica toscana parte da molto lontano, fa parte della nostra storia, ma passare dalle dichiarazioni di intenti alla vita quotidiana delle nostre parrocchie è compito arduo e ancora lontano dall’essere realizzato.
Per questo tra i progetti a lungo termine della Commissione regionale c’è la formazione di «Consigli di Chiese» in ogni diocesi (sullo schema ad esempio della diocesi di Modena) e la realizzazione di brevi corsi stanziali di aggiornamento per i delegati o di formazione per catechisti. Sempre più spesso, aldilà della necessaria conoscenza teorica sull’ecumenismo che ogni catechista dovrebbe avere, si presentano problemi concreti con i bambini di famiglie ortodosse che seguono, anche solo per sentirsi più integrati, il catechismo con i compagni di scuola. Problemi ancora più grandi si presentano nel dialogo interreligioso, naturalmente, ma anche in questo caso la nostra regione ha molte esperienze di Tavole di dialogo istituite da Comuni anche piccoli. La Commissione si è trovata spesso a discuterne concludendo che, con tutti i limiti che queste possono avere, rappresentano comunque opportunità che dobbiamo saper cogliere ed è dunque importante non sottrarsi ma anzi portare il nostro contributo per mediare o chiarire laddove sia necessario.
«Essere riuniti nella Tua mano» (Ez 37,17), il versetto proposto quest’anno dalla Settimana per l’Unità dei cristiani sembra allo stesso tempo una preghiera e un progetto, una invocazione e una dichiarazione d’intenti. Esprime bene lo stato d’animo di quanti hanno a cuore l’ecumenismo oggi.
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L’ecumenismo oggi
Giuseppe Crocetti sss (Delegato per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della diocesi di San Benedetto del Tronto)
«Veritas in caritate»
Invitato dai Padri Sacramentini di San Benedetto del Tronto, sabato 3 gennaio, ore 17,30, Mons. Giuseppe Chiaretti ha tenuto una conferenza alla cittadinanza dal titolo: “L’ecumenismo oggi”. Nonostante il tempo brutto, quanti si sono presentati per l’ascolto sono stati così numerosi da dover spostare la riunione dalla Sala delle Riunioni all’adiacente chiesa dei sacramentini. Mons. Chiaretti, che è stato vescovo di San Benedetto del Tronto Ripatransone e Montalto per tredici anni, continua a essere molto amato e stimato dalla popolazione. La conferenza, oltre all’ovvio scopo informativo, doveva servire come preparazione “alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani” del 18-25 corrente mese: scopi che sono stati egregiamente raggiunti.
Parlando davanti a tante persone che gli sono rimaste affezionate e nella chiesa dell’adorazione, dove più volte ha presieduto celebrazioni nella Settimana dell’Unità dei cristiani, Mons. Chiaretti ha iniziato rilevando il rapporto necessario che intercorre tra l’Eucaristia, Sacramentai unitaria, e l’unità dei cristiani; a questo scopo ha citato 1 Cor 10,16; Gv 17; Didaché e altro. Poi è passato al corpo dell’argomento mettendo in risalto il tipo di ecumenismo che è scaturito dal Concilio Vaticano II e sull’ecumenismo quale deve essere praticato oggi. Si tratta di instaurare un sincero dialogo fra le chiese in modo da giungere alla riconciliazione e al rispetto reciproco. Da questo clima, di fiducia reciproca, di spirito di conversione e di confronto umile con la Parola di Dio, si accrescerà la possibilità di fare ulteriori passi in avanti nell’unità dei cristiani. A questo punto ha ricordato il documento sulla Giustificazione tra cattolici e luterani. Questi atteggiamenti, sia umani che di fede, non devono portare però al compromesso, come neppure a far mettere da parte l’obbligo dell’annuncio della propria e il coerente stile di vita. L’ecumenismo si nutre della grazia divina, accolta con riconoscenza e disponibilità dalla chiese.
Ha poi fatto considerazioni sul rapporto tra i cristiani con l’Islam, non privo di difficoltà; sul rapporto tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa russa, auspicando una situazione migliore col futuro nuovo patriarca di Mosca; sulla situazione concreta di San Benedetto del Tronto dove – anche in questo un porto di mare – si hanno in numero notevole ortodossi, protestanti, mussulmani, individui praticanti culti dell’estremo oriente, Testimoni di Geova. Ne ha dedotto che al cattolico non mancano occasioni per dare testimonianza della propria fede.
La conferenza di Mons. Chiaretti, impostata sulla semplicità dell’esposizione e sulla profondità dei concetti, non disturbata da qualche momento di emozione, ha fatto in tutti una profonda impressione. Ci ha preparati a vivere con slancio la prossima Settimana per l’unità dei cristiani.
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L’incontro europeo a Bruxelles. Un’esperienza di comunione
Fratel Alois
«L’Osservatore Romano»
All’indomani del nostro xxxi incontro europeo di giovani, a riempirmi il cuore è in primo luogo una grande riconoscenza per l’accoglienza che abbiamo ricevuto a Bruxelles e nella regione circostante. Migliaia di famiglie hanno ospitato la quasi totalità dei partecipanti. Il fatto che delle persone aprano le loro porte a giovani che non conoscono, venuti da altri Paesi, in un periodo in cui si ha spesso paura degli stranieri, mette in luce la comunione della Chiesa e approfondisce la comprensione reciproca fra i popoli. L’ospitalità è un gesto con il quale tutti possono divenire, semplicemente, portatori di pace nella società.
Questo incontro è stato preparato in stretta collaborazione con i cristiani di Bruxelles. Fratelli della nostra comunità hanno vissuto vari mesi nella città per organizzare questa accoglienza, insieme alle parrocchie. Così quelli che sono venuti da tutta l’Europa non si sono solo incontrati fra loro, ma hanno fatto anche l’esperienza di una Chiesa locale, e ciò può incoraggiarli a impegnarsi – una volta tornati a casa – nella loro Chiesa locale, nelle loro parrocchie: scopriranno che, anche in due o tre, è possibile spingersi reciprocamente a pregare, ad approfondire la fiducia in Dio.
A Bruxelles, ogni mattina si sono riuniti nella parrocchia dove erano alloggiati, hanno pregato insieme, si sono confrontati con i parrocchiani. A mezzogiorno e la sera, ci siamo ritrovati tutti insieme per le preghiere comuni nelle grandi sale d’esposizione allestite come luoghi di preghiera. Quelle preghiere comuni rendevano visibile un riflesso dell’universalità della Chiesa. Cuore dell’incontro, potevano affrontare l’interrogativo interiore proposto a ognuno: come liberare in noi la fonte di speranza e di gioia? Non è prima di tutto cercando di scoprire la presenza di un Dio d’amore nella nostra vita?
Mentre l’orizzonte si sta oscurando per molti, è stato importante che migliaia di giovani si siano riuniti per ribadire la speranza che li anima per la loro vita personale, per la società, per il mondo. Questa speranza è alimentata dalla convinzione che può nascere una nuova fraternità fra gli uomini. Una nuova solidarietà può rinnovare la vita delle nostre società. Essere riuniti in una così bella comunione apre anche a una nuova comprensione di Dio.
Sebbene migliaia di giovani si ritrovino insieme, un simile incontro non può essere considerato una riunione di massa. Gli scambi personali in piccoli gruppi hanno un ruolo importante. Il pomeriggio i giovani hanno riflettuto su numerosi temi attraverso dibattiti. Ecco alcuni esempi. Alcuni temi erano esplicitamente legati alla ricerca di Dio: come posso scoprire la chiamata di Dio nella mia vita? Altri dibattiti hanno affrontato temi sociali: quali azioni sono possibili per un’economia più solidale? Due commissari europei vi hanno partecipato e hanno animato due dibattiti sull’Europa. L’arte e la musica non sono state dimenticate. In due dibattiti è stato affrontato il tema dell’incontro delle culture: cori musulmani e cristiani si sono alternati, cori di comunità cristiane residenti a Bruxelles hanno eseguito canti di tutto il mondo.
Molti giovani sono andati a pregare per un po’ in un luogo allestito per quanti cercavano il silenzio. Là potevano anche ricevere il sacramento della Riconciliazione, o semplicemente essere ascoltati. Sono stati in molti a confidare un problema, una sofferenza o una gioia. Vedendo quanto era importante per loro, mi sono chiesto: come si può vivere meglio il ministero di ascolto nelle nostre Chiese? Uomini e donne sono pronti e possono farlo. Essere accolti personalmente, confidarsi con qualcuno, è fondamentale per trovare sempre e di nuovo la fiducia in Dio.
Poiché l’incontro europeo quest’anno si è tenuto a Bruxelles, sede delle istituzioni europee, è apparso importante rivolgere all’Unione europea un messaggio che traducesse le attese e le speranze dei giovani e che riflettesse anche gli interrogativi spesso posti da loro. Accogliendo da tanti anni i giovani a Taizé o in incontri come quello di Bruxelles, abbiamo constatato che nelle nuove generazioni si è sviluppata una coscienza europea. La conoscenza reciproca fra Paesi europei si è approfondita. I giovani vogliono un’Europa aperta e solidale verso i Paesi più poveri. Vorrebbero che le istituzioni europee facessero tutto il possibile in tal senso.
Quindici giorni prima dell’incontro, sono andato a Bruxelles per portare questo messaggio a José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea. Con questo gesto volevo esprimere la speranza che il nostro “pellegrinaggio di fiducia sulla terra” recasse frutti anche a livello della vita delle società e che si producesse un riavvicinamento: che i giovani comprendano meglio il lavoro delle istituzioni europee e che queste ultime si pongano di più all’ascolto delle aspirazioni dei giovani.
L’Europa è riuscita a inaugurare un periodo di pace senza precedenti nella storia. Sono stati dei cristiani a osare iniziare riconciliazioni insperate fra popoli europei. I giovani continueranno a edificare questa pace? Vogliono contribuire a costruire un’Europa aperta e solidale?
Al termine dell’incontro, un interrogativo è stato posto: quali impegni sono alla nostra portata dinanzi alla complessità dei problemi che ci circondano, la povertà, le ingiustizie, le minacce di conflitti? Non è forse andare verso gli altri, con grande semplicità? Andare verso i più vulnerabili? Visitare quanti sono esclusi e abbandonati? Cercare di compiere gesti concreti di un’Europa aperta e solidale? Pensando in particolare agli immigrati così vicini e tuttavia spesso così lontani?
Perché, con i miei fratelli, dedichiamo tante energie a preparare questi incontri? Il fatto è che per molti giovani che desiderano confidare in Dio, le parole di un insegnamento non bastano più oggi. Un’esperienza di comunione, della comunione della Chiesa, è indispensabile per comprendere meglio il Vangelo.
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Bilancio e prospettive per il dialogo in un’intervista al cardinale Jean-Louis Tauran. Le religioni chiamate a essere scuole d’umanità
Mario Ponzi
«L’Osservatore Romano»
Dialogo teologico con i musulmani? Sì ma nel senso lato del termine, come suggerito dalla Nostra aetate. Cambierà qualcosa nel rapporto con gli induisti dopo i tragici eventi che hanno caratterizzato l’ultimo scorcio dell’anno appena passato? No, ma sarà bene capire che quanto è accaduto ha una natura prettamente politica e dunque dovranno essere le autorità politiche ad assicurare il rispetto della libertà religiosa. Cosa ha portato di nuovo il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio nel dialogo tra le religioni? Ha ribadito che è necessario per tutti conoscere i libri sacri degli altri se si vuole promuovere un dialogo tra le religioni nella verità. Una speranza per il futuro? Che tutte le religioni siano chiamate a essere scuole di umanità. Il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, nell’intervista concessa al nostro giornale all’inizio del nuovo anno, si sofferma sui principali elementi che hanno caratterizzato il confronto tra le religioni nel 2008, in particolare quello tra cattolici e musulmani e allarga l’orizzonte su quelli che saranno i prossimi incontri per proseguire in questa “grande esperienza spirituale”.
Dopo la lettera di Benedetto XVI al senatore Marcello Pera per il suo libro Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori) si è detto che il Papa ha negato la possibilità del dialogo tra le religioni. Come stanno veramente le cose?
Prima di tutto, leggiamo bene ciò che ha scritto il Papa nella sua lettera: “Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo tra le religioni nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo”. L’espressione “nel senso stretto della parola” è di particolare importanza. È ovvio che il Papa si situa nel solco del documento della Commissione Teologica Internazionale Il cristianesimo e le religioni (30 settembre 1996) e della Dominus Iesus (6 agosto 2000). Conviene pure ricordare le parole che ha pronunciato all’inizio del suo Pontificato: “Vi assicuro che la Chiesa vuole continuare a costruire ponti di amicizia con i seguaci di tutte le religioni, al fine di ricercare il bene autentico di ogni persona e della società nel suo insieme” (25 aprile 2005). Qualche mese dopo, a Colonia, rivolgendosi ai rappresentanti delle comunità musulmane di Germania, affermava: “Insieme, cristiani e musulmani, dobbiamo far fronte alle numerose sfide che il nostro tempo ci propone. Non c’è spazio per l’apatia e il disimpegno e ancor meno per la parzialità e il settarismo. Non possiamo cedere alla paura né al pessimismo. Dobbiamo piuttosto coltivare l’ottimismo e la speranza. Il dialogo tra le religioni e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi a una scelta stagionale. Esso è infatti una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro” (20 agosto 2005).
È possibile un dialogo teologico con i musulmani?
La Dominus Iesus (n. 7) afferma la fondamentale distinzione tra fede teologale (l’accoglienza della verità rivelata in merito al Dio Uno e Trino), da un lato e, dall’altro, le credenze presenti nelle altre religioni (l’insieme delle esperienze e delle riflessioni provenienti dalla saggezza e dalla religiosità dei loro seguaci nella loro ricerca della verità). Quindi, non si può dialogare teologicamente tra cristiani e adepti di altre religioni, perché non si può equiparare fede teologale e credenza. Non possiamo dire che cristiani e seguaci delle religioni tradizionali d’Africa, per dare un esempio, hanno lo stesso Dio. Quando si parla delle religioni monoteiste, non si può usare l’aggettivo “monoteista” senza precisarlo. Inoltre non abbiamo lo stesso rapporto con Dio e tanto meno con i nostri rispettivi libri sacri. I cristiani non sono fedeli di una “religione del Libro”, ma della Parola che non è altro che una Persona, cioè Gesù, che non ha mai scritto né dettato nulla. Ciò detto, però, c’è la possibilità di dialogare in profondità con persone di altre religioni su temi squisitamente religiosi, quali la creazione, la vita, la famiglia, la preghiera, il digiuno, la vita eterna, e, quindi, in tale ottica, si può parlare di un dialogo teologico in senso lato, come suggerito dalla Dichiarazione conciliare Nostra aetate, sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane. Per esempio, in merito ai musulmani, vi si legge: “La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno” (n. 3). Per quanto riguarda le religioni tradizionali (dell’Africa, dell’Australia), e quelle asiatiche (induismo, buddismo), lo stesso documento dice: “La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini” (n. 2). Da tutto ciò risulta che il confronto tra credenti su temi religiosi consente loro di collaborare – ovviamente rispettando la libertà di coscienza di ciascuno – nel campo culturale e caritativo, unendo così gli sforzi a quelli portati avanti da tante persone di buona volontà a favore della giustizia e della pace.
Cosa ha portato di nuovo il recente Sinodo dei vescovi nel dialogo con le altre religioni, soprattutto per ciò che riguarda le Sacre Scritture?
Farei innanzitutto due osservazioni. Bisogna evitare di parlare di “Sacre Scritture” per tutte le religioni; parliamo, piuttosto, dei loro libri sacri. Poi, direi che il sinodo non ha scoperto cose nuove in merito alla Parola di Dio: ne ha approfondito la realtà, il messaggio e la sua insondabile ricchezza. Siamo stati concordi nel riconoscere che, con i molti credenti che praticano fedelmente i dettami dei loro libri sacri possiamo collaborare assieme all’edificazione di un mondo di luce e di pace. Il Messaggio finale del Sinodo mette bene in risalto, da una parte, la ricchezza spirituale che le religioni non cristiane rappresentano per tutti e, dall’altra, il dovere nostro di testimoniare il significato che la Parola di Dio ha per noi cristiani nella nostra vita quotidiana. Così facendo possiamo rivelare agli altri nuovi e più elevati orizzonti di verità e di amore (cfr. n. 14). Nel mio intervento nell’aula sinodale, ho sottolineato la necessità di favorire negli istituti cattolici di insegnamento, nei seminari e nei noviziati la conoscenza diretta dei grandi testi fondatori delle religioni. Una loro lettura, anche parziale, è indispensabile se si vuole promuovere un dialogo tra le religioni nella verità. Tutti i credenti sono uomini e donne che aspettano di essere “istruiti” da Dio. Ovviamente, anche noi cristiani, abbiamo il dovere di far conoscere la Bibbia ai seguaci delle altre religioni! Ricordiamoci sempre che la sfiducia, la calunnia e la paura hanno come causa fondamentale l’ignoranza.
Il prossimo anno si celebrerà l’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per l’Africa. Ci saranno riunioni preparatorie nel vostro Consiglio?
Per il momento abbiamo in calendario, in primavera, un incontro con un gruppo di formatori negli istituti religiosi specialmente incaricati della promozione del dialogo tra le religioni in Africa. Non c’è dubbio che, nella prospettiva dell’Assemblea speciale sinodale di ottobre, dovremo approfondire il messaggio che le religioni tradizionali africane lanciano alla Chiesa e al mondo. Molti sono i valori che esse racchiudono: visione spiritualista e solidale del mondo dove l’umanità è chiamata a creare un’unica famiglia, forte legame con gli antenati. L’uomo africano è naturalmente religioso. Crede in un Essere supremo, Eterno, Creatore, Provvidenza, Giudice. Sono elementi che possono armonizzarsi con la fede cristiana ed essere considerati come una “preparazione” al Vangelo poiché racchiudono i semina Verbi. Ciò detto, abbiamo anche il dovere di segnalare pratiche e influenze negative che non possono essere accolte dal cristianesimo, né coesistere con la professione della fede cattolica. Ci sarà, poi, da riflettere sull’islam africano relativamente alla sua specificità, alla sua diffusione, al suo modo di confrontarsi con le religioni tradizionali e con il cristianesimo. Come vede, il nostro Pontificio Consiglio non può che guardare con vivo interesse questo prossimo appuntamento.
Alla luce dei tragici eventi in India, su quali basi potrà proseguire il dialogo con gli indù?
Per capire la dinamica dei tragici fatti ai quali lei si riferisce, si deve risalire al 1989 quando il Partito Nazionalista Indù è salito al potere nello Stato di Orissa. Più che un conflitto di natura religiosa, si tratta di un problema di stampo sociale e politico. Ai cattolici viene rimproverato di occuparsi delle caste inferiori che costituiscono la mano d’opera per le caste superiori. Viene contestato al cristianesimo il fatto che esso è anche un fattore di emancipazione sociale. Ovviamente, noi cattolici proseguiremo il dialogo. Un dialogo, conviene sottolinearlo, che viene portato avanti soprattutto dalla Chiesa locale, sotto l’attenta guida dei vescovi, con l’aiuto del nunzio apostolico. Io stesso ho intenzione di recarmi in India nei prossimi mesi per un incontro con i vescovi e i leader religiosi indù per fare il punto della situazione. Comunque sia, continueremo a chiedere il rispetto della libertà religiosa che suppone il rispetto della libertà di coscienza, ossia la possibilità di scegliere la propria religione o di cambiarla, di praticarla in privato e in pubblico. Un altro dialogo, invece, deve essere portato avanti parallelamente con le autorità politiche, il cui compito è quello di assicurare le condizioni di una reale ed effettiva libertà religiosa, senza discriminazione o segregazione, nella libera adesione a una comunità religiosa organizzata. Tutto ciò non è nient’altro che quanto richiesto dal diritto internazionale e dalle convenzioni internazionali, a cui del resto, l’India aderisce. E, infine, compete a ogni Governo assicurare la sicurezza fisica dei suoi cittadini, soprattutto quando una parte di loro è vittima di violenze fisiche, come nel caso di cui parliamo. Penso, da un punto di vista pratico, che tutti abbiano interesse a un effettivo rispetto della libertà religiosa: credenti che si sentono rispettati e difesi nella professione della propria fede saranno ancora più disposti a collaborare al benessere materiale, sociale e spirituale della società di cui sono membri a tutti gli effetti. Vorrei ricordare che le violenze ingiustificabili di cui parliamo non riguardano la maggioranza degli indù e dei loro capi tradizionalmente pacifici. Ecco perché, nel mio messaggio in occasione della recente celebrazione del Diwali, ho voluto riaffermare la necessità che cristiani e indù lavorino insieme alla luce del comune principio della non-violenza.
Quali sono stati i frutti del dialogo tra le religioni in questo anno appena trascorso?
Devo dire che non tutti i frutti del dialogo sono misurabili con una regola. Il dialogo è anche avventura, perché ogni incontro, ogni parola può cambiare il corso di una vita. Infatti, mi accorgo sempre di più dell’importanza dei rapporti tra le persone, dell’impatto di una accoglienza cortese e calorosa. Fa particolare effetto, al riguardo, l’incontro dei nostri partner di varie religioni, ma specialmente musulmani, col Papa. Segnalo il miglioramento dell’atmosfera degli incontri: rispetto reciproco, cordialità e, allo stesso tempo, un dialogo autentico che non teme le diversità di vedute. Nel corso dell’anno che si è appena concluso, numerosi sono stati gli incontri regolari. Innanzitutto, la riunione annuale, al Cairo, a febbraio scorso, del comitato misto per il dialogo tra il Pontificio Consiglio e al-Azhar. Il tema in esame era: “La fede in Dio e l’amore del prossimo come fondamenta del dialogo islamo-cristiano”. Quindi il colloquio con gli iraniani su “Fede e ragione nel cristianesimo e nell’islam”, tema caro, come si sa, al Papa. Detto colloquio si è tenuto a Roma, nell’aprile scorso. La sedicesima riunione del comitato islamico-cattolico di collegamento si è tenuta a Roma nei giorni 11 e 12 giugno, intorno al tema “Cristiani e musulmani, testimoni del Dio della giustizia, della pace e della compassione in un mondo che soffre la violenza”. Per continuare questo elenco cronologicamente, ricordo il primo seminario del forum cattolico-islamico (4-6 novembre). Infine il colloquio, che ha chiuso quest’anno di lavoro, ha avuto luogo a Roma dal 15 al 17 dicembre, con la World Islamic Call Society a Tripoli in Libia. Il tema è di particolare importanza e attualità: “Responsabilità dei religiosi specialmente in tempi di crisi”.
Cosa ci riserverà l’anno appena iniziato?
Per quanto riguarda l’anno appena iniziato, sempre nel campo cristiano-islamico, il primo appuntamento è quello del comitato misto per il dialogo tra il Pontificio Consiglio e al-Azhar. L’incontro avrà luogo a Roma, il 24 e 25 febbraio prossimi. È un fatto significativo e commovente rilevare che sono stati i nostri partner musulmani di al-Azhar a proporre il 24 febbraio come data annuale della riunione, in ricordo della visita di Giovanni Paolo ii ad al-Azhar nel 2000, proprio il 24 febbraio. Gesto senza dubbio delicato e gradito e ulteriore segno di speranza per il cammino necessario, e non sempre facile, del dialogo tra cristiani e musulmani. Ci sarà, probabilmente in maggio, in giorni ancora da fissare, un colloquio con il Royal Institute for Inter-faith Studies. I prossimi incontri con gli altri partner musulmani saranno di natura preparatoria ai colloqui che avranno luogo l’anno seguente.
Cosa si aspetta da questa serie di appuntamenti?
Senza minimizzare difficoltà e ambiguità che possono esistere e che certo devono essere eliminate, ritengo che le religioni, malgrado le pecche dei loro adepti, siano chiamate a essere scuole di umanità e di fraternità. Dialogare con i loro responsabili è sempre un’esperienza spirituale. A loro incombe di far scoprire a quanti li seguono che la libertà religiosa e l’armoniosa convivialità tra le religioni sono condizioni indispensabili all’edificazione di una nazione e all’amicizia tra i popoli.
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La priorità della ricerca ecumenica
La settimana di preghiera per l’unità dei cristiani
Brian Farrell
«L’Osservatore Romano»
Malgrado alcuni segni di stanchezza e di delusione, nella Chiesa cattolica la ricerca ecumenica continua a essere punto forte di riferimento sia di pensiero che di azione. E, come è facile constatare dai numerosi incontri e discorsi a carattere ecumenico, essa è indubbiamente una priorità per Papa Benedetto XVI, proprio come lo è stata per i Papi che lo hanno preceduto, da Giovanni xxiii e dal concilio Vaticano II in poi.
L’impegno cattolico nel movimento ecumenico ha il suo fondamento nel rinnovamento ecclesiologico del concilio Vaticano II. Il Concilio infatti unisce il suo insegnamento sulla Chiesa cattolica al riconoscimento degli elementi salvifici che si trovano anche “al di fuori” di essa, nelle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Pertanto, coltivare le buone relazioni e dialogare con esse serve a portare alla luce il grado di comunione già esistente, cioè gli elementi dell’opera salvifica di Cristo che la Chiesa cattolica e le altre Chiese e Comunità ecclesiali hanno in comune. Ne risulta che il compito dell’ecumenismo è di incoraggiare i cristiani divisi a riscoprire insieme ciò che essi hanno in comune e a scoprire, reciprocamente, gli uni negli altri, i doni della grazia che appartengono alla “pienezza” di tutto ciò che il Salvatore vuole per i suoi discepoli.
Ma come sta andando concretamente la ricerca della piena comunione, infranta da tante divisioni tra i cristiani, eredità anche questa della bimillenaria storia della Chiesa?
Parlando, il 12 dicembre scorso, ai partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani (Pcpuc), Benedetto XVI ha chiaramente affermato elementi di progresso “nel contesto delle relazioni ecclesiali che, per grazia di Dio, si vanno estendendo e coinvolgono non solo i Pastori, ma tutte le varie componenti ed articolazioni del Popolo di Dio”. In particolare, ha segnalato il miglioramento continuo nelle relazioni tra cattolici ed ortodossi: “Ringraziamo il Signore per i significativi passi in avanti compiuti, ad esempio, nei rapporti con le Chiese ortodosse e con le antiche Chiese dell’Oriente sia per quanto concerne il dialogo teologico, sia per il consolidamento e la crescita della fraternità ecclesiale (…) È consolante poi notare come un sincero spirito di amicizia fra cattolici e ortodossi sia andato crescendo in questi anni, e si sia manifestato anche nei molteplici contatti intercorsi tra Responsabili della Curia Romana e Vescovi della Chiesa cattolica con Responsabili delle diverse Chiese ortodosse, come pure nelle visite di alti esponenti ortodossi a Roma e a Chiese particolari cattoliche”.
Proprio questo progresso nel “dialogo della carità” ha permesso al “dialogo teologico” tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa di ottenere risultati notevoli, e persino inattesi, nelle ultime sessioni della sua Commissione internazionale. Altri articoli di questa serie tratteranno dello stato generalmente positivo del dialogo con l’Ortodossia e con le Antiche Chiese dell’Oriente.
Resta tuttavia un interrogativo diffuso, venato di una certa diffidenza, circa i reali risultati dei dialoghi con le Comunità ecclesiali d’Occidente. La recente plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani si è espressamente dedicata a riflettere su tale inquietudine, esaminando un documento di studio preparato da ufficiali e consultori del dicastero sotto la guida personale del cardinale presidente, documento che – nella sua traduzione dall’originale inglese – ha per titolo: “Progetto di Raccolta: consenso ecumenico e convergenza ecumenica su alcuni aspetti fondamentali della fede cristiana nei documenti dei primi quattro dialoghi bilaterali internazionali a cui la Chiesa cattolica ha preso parte dal concilio Vaticano II in poi”.
Oltre quattro decenni di dialoghi ecumenici ufficiali a livello internazionale tra il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e le principali Comunità ecclesiali mondiali hanno prodotto una quantità imponente di studi e documenti, che testimoniano la comune ricerca della realizzazione della preghiera di Gesù “affinché tutti siano uno” (Giovanni 17, 21). In fedeltà a questa preghiera, i dialoghi hanno inteso superare le dolorose divergenze del passato e, sulla base della comune fede in Gesù Cristo, hanno cercato di appianare la strada verso una futura, “piena comunione visibile” nella verità e nell’amore. Possiamo affermare che sono stati superati molti pregiudizi ed incomprensioni del passato, sono stati gettati ponti per una nuova condivisione e collaborazione concreta e, in molti casi, sono stati raggiunti consensi e convergenze, sono state meglio identificate antiche differenze, che purtroppo perdurano.
Il “Progetto di Raccolta” è ancora uno studio in via di completamento. Nell’anno trascorso a riesaminare i documenti emanati dai dialoghi iniziati a seguito del concilio Vaticano II – con la Federazione luterana mondiale, con il Consiglio metodista mondiale, con la Comunione anglicana e con l’Alleanza mondiale delle Chiese riformate – i redattori sono stati felicemente sorpresi dal constatare la “qualità” dei risultati raggiunti in tali testi. Il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani si augura che, una volta ultimato e pubblicato, lo studio potrà contribuire a rinvigorire i dialoghi stessi con l’individuazione di vie nuove per affrontare insieme le divergenze che permangono nei rapporti tra i discepoli di Cristo.
Si può dire che il “Progetto di Raccolta” mostri come, in diverse misure, siano state superate alcune delle polemiche fondamentali della Riforma e Controriforma. Oggi, per esempio, esiste una rinnovata concezione della relazione tra Scrittura e Tradizione, tema che, nel XVI secolo, fu fonte di aspre contrapposizioni tra cattolici e riformatori. Nei dialoghi presi qui in considerazione, non sarebbe più possibile porre Scrittura e Tradizione in antitesi tra loro; la Scrittura stessa è il risultato della prima tradizione apostolica, e la tradizione successiva – nella sua dimensione teologica – può essere concepita anche come storia della ricezione ed interpretazione del Vangelo, testimoniato anche dalla Bibbia. Il fatto di accogliere questo chiarimento, sia nella coscienza cattolica che tra i nostri fratelli della Riforma, è stato fonte di intenso rinnovamento spirituale e, in realtà, ha condotto i singoli e le comunità ad un elevato grado di spiritualità biblica condivisa.
Rimangono, senz’altro, dei seri interrogativi tra cattolici e protestanti, da non trascurare nei dialoghi ecumenici futuri: cosa significa effettivamente il primato della Scrittura all’interno della Tradizione? Se ed in quale senso interpretazioni vincolanti della Scrittura sono contenute nella Tradizione? A chi spetta l’ultima parola sull’interpretazione vincolante del comune patrimonio apostolico? Sul tema di un “magistero autorevole” esistono differenze irrisolte tra le Chiese, ciò che troppo spesso non le mette in grado di parlare con una sola voce.
Il “Progetto di Raccolta” dimostra che vi è stato un progresso nei dialoghi anche sulla questione che è al centro della rivelazione biblica: la giustificazione dell’uomo peccatore. Nel periodo della Riforma, l’interpretazione della giustificazione data dai riformatori – cioè, la dottrina sul modo secondo il quale l’uomo è effettivamente salvato dalla sua condizione di peccatore – ha sollevato problemi fondamentali da parte cattolica, e ha dato luogo ad aspre controversie e condanne – ad esempio da parte del Concilio di Trento, in particolare nel suo Decreto sulla Giustificazione.
La “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione” firmata da luterani e cattolici nel 1999, è uno dei più importanti risultati ecumenici degli ultimi decenni. Al consenso raggiunto hanno successivamente aderito i metodisti, arricchendo l’accordo grazie ad una ancora più accentuata sottolineatura del nesso tra giustificazione e santificazione. Con questo consenso si è giunti nuovamente a vedere che l’affermazione della sola gratia e sola fide non deve essere considerata contraddittoria rispetto all’affermazione che, per mezzo della grazia, siamo resi capaci di portare buoni frutti tramite le opere di giustizia, di misericordia e di carità operativa.
Dalle preoccupazioni dei riformatori circa la giustificazione e la sovranità di Dio nel concedere la salvezza è derivata poi una serie di domande sulla Chiesa stessa, sulla sua natura e il suo compito. Già la disputa di Lutero del 1517 riguardante le indulgenze, comportava una sfida all’autorità del Papa e dei Concili, sfida sfociata nel concetto della Chiesa quale “congregazione di fedeli” (communio sanctorum) esistente là dove la Parola di Dio è correttamente predicata e i sacramenti opportunamente amministrati secondo il Vangelo. La Riforma poneva così le basi per una concezione della Chiesa quale comunità spirituale, non più essenzialmente sacramentaria e gerarchica. Da qui cattolici e protestanti sono profondamente divisi nella loro concezione della realtà della Chiesa, tra una visione allo stesso tempo spirituale e istituzionale, e una visione della Chiesa più “evento spirituale” che organismo. Eppure, trattando queste ed altre controversie, i dialoghi ecumenici sono stati in grado di individuare molteplici elementi di convergenza circa le radici trinitarie della Chiesa e la sua natura di koinonia-communio, ciò che ha portato a delle convergenze anche nella riflessione sui ministeri ecclesiali, e persino a una nuova ed importante apertura a ripensare quella questione da lunga data conflittuale che è il ministero petrino.
Sebbene nessuna di queste questioni sia stata risolta nel senso di un pieno consenso, e persino nuove difficoltà si sono presentate sull’orizzonte, il “Progetto di Raccolta” ci conferma che i dialoghi ecumenici presi in considerazione, pur seguendo ciascuno un proprio cammino, siano tutti giunti a interrogarsi su questi temi in profondità. Le convergenze raggiunte hanno corroborato e approfondito il senso della reale, anche se incompleta, comunione esistente sulla base dell’unico battesimo e di tanti altri elementi di fede e di vita cristiana preservati dall’originaria tradizione. Per concludere, possiamo dire che, sia nel vasto campo delle relazioni interecclesiali, sia in quaranta anni di dialogo ecumenico, qualcosa di prezioso e importante è stato raggiunto. L’ecumenismo è un dono di Dio alla cristianità, una grazia che consente di sperare che i cristiani, anche se ancora divisi, riusciranno meglio ad affrontare insieme le grandi sfide che sono già alle porte e sono uguali per tutti. I dialoghi non possono, di per sé, garantire la realizzazione dell’obiettivo finale del movimento ecumenico, e cioè l’unità nell’eucaristia come segno di comunione totale. Tuttavia, il “Progetto di Raccolta” attesta che quanto acquisito finora costituisce una base solida e un incentivo a realizzare ciò che è la volontà del Signore e la profonda aspirazione di tanti cristiani. Come ebbe a scrivere il cardinale Kasper: “In tal modo i nostri dialoghi ecumenici, arricchiti da ciò che abbiamo raggiunto con l’aiuto di Dio negli ultimi decenni, entreranno in una nuova e, c’è da sperare, fruttuosa fase futura, forse meno entusiasta, ma sicuramente più sobria, e proprio per questo piena di speranza e colma della dynamis dello Spirito”.
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Credo dunque sono (libero)
La morte di Olivier Clément
Adriano Dell’Asta
«L’Osservatore Romano»
Un testimone del Risorto. Olivier Clément, deceduto nella serata del 15 gennaio scorso, è stato molte cose: un grande teologo, un grande scrittore, un finissimo poeta, un esempio di spirito ecumenico, fino al punto, nel 1998, di vedersi affidare da Giovanni Paolo II il compito di preparare, lui ortodosso, le meditazioni lette nel corso dell’annuale Via Crucis al Colosseo; ma soprattutto è stato un testimone del Risorto, uno dei grandi personaggi che hanno mostrato che “si poteva essere cristiani nel xx secolo” e che questa possibilità ridava respiro e speranza alla vita.
Nato nel 1921, nel sud della Francia, Clément era arrivato alla fede da adulto, alla fine degli anni Quaranta, dopo essere stato a lungo un “pagano mediterraneo”, pieno di dubbi irrisolti e di finte risposte, finché nel cristianesimo, incontrato attraverso l’esperienza dei filosofi religiosi russi – soprattutto Nikolaj Berdjaev e Vladimir Losskij – aveva trovato una forza di vita; più radicalmente, aveva trovato la vita: la visione di un uomo trasfigurato dalle energie divine in un mondo assediato dal nulla, l’esperienza della bellezza luminosa e sorprendente delle cose al fondo di una personale notte dell’anima dalla quale nulla sembrava poterlo liberare.
Il cristianesimo come vita, come l’esperienza del Vivente: non un discorso astratto, una serie di valori e di idee sia pur altissime, delle risposte preconfezionate e rassicuranti, ma semplicemente il gusto e il senso della vita, la capacità di tener desta una domanda e una sete di senso proprio nel momento in cui si trovava una risposta assolutamente sorprendente e convincente a tutti i propri interrogativi; come avrebbe detto molto più tardi, nel 1996: “Il cristianesimo non è né moralismo né ritualismo, ma invocazione, forza, luce. Il cristianesimo non è più né un’imposizione ideologica, la vecchia eresia dei tempi della cristianità, né un comparto della cultura in serie con tanti altri, la nuova eresia dei tempi della modernità, ma l’esorcismo, la densità, la profondità di ogni esistenza – per chi lo vuole – nell’amore e nella libertà. Per l’amore e per la libertà”.
Nei libri di Olivier Clément le risposte, la salvezza, la trasfigurazione dell’uomo e del cosmo non erano mai un banale e facile lieto fine, ma la sempre drammatica sconfitta della morte attraverso la morte di Croce: non la fine della storia, ma la sempre rinnovata freschezza di un nuovo inizio nell’amore e nella libertà, la rinascita dell’uomo in Cristo.
In un mondo fatto di divisioni insuperabili, lacerato soprattutto dalla contrapposizione tra il Creatore e le sue creature, che non riuscivano più ad accettare il mondo di Dio, il mondo di Auschwitz e Hiroshima, del nuovo e temuto olocausto nucleare, il cristianesimo si presentava invece attraverso Clément come la possibilità di tornare finalmente a concepire Dio e l’uomo in una unità vivente, dove l’uomo trovava la forza di creare e di essere libero non rubandola a Dio, ma ricevendola da Lui come un dono e un compito: il dono di essere creato e il compito del figlio; era l’idea dell’immagine di Dio presente in ogni uomo come verità dell’uomo stesso, come fondamento dell’irriducibile dignità di ogni singolo uomo. All’inizio degli anni Settanta, in uno dei suoi primi libri tradotti in italiano, Riflessioni sull’uomo, cogliendo la radice del nichilismo che stava catturando l’umanità contemporanea e inchiodava l’uomo alla sua orgogliosa solitudine o alla disperata fusione in una società sempre più massificante e spersonalizzante, aveva scritto: “Abbiamo la tendenza a giustapporre il Creatore e la sua creatura mentre al contrario occorrerebbe presentire che le creature esistono solo in Dio, proprio in quella volontà creatrice che le rende diverse da Dio”.
Una volontà creatrice che ci rende diversi da Dio proprio mentre Dio ci fa a Sua immagine: è l’infinita antinomia dell’unità nella diversità, dell’unità dell’uomo con Dio e dell’unità degli uomini fra di loro, riaffermate proprio mentre Dio resta assolutamente trascendente e irriducibile a quanto l’uomo può pensare di Lui e mentre ogni uomo resta assolutamente irriducibile a tutti gli altri e a ogni altra realtà creata. Scriveva ancora Clément: “Il fatto che l’uomo sia formato a immagine di Dio significa dunque che è formato a immagine di Cristo ed è soltanto in Cristo che l’uomo trova la propria verità. (…) È nel Risuscitato che l’uomo scopre il senso della terra, lo scopo della creazione. Il volto del Cristo è inseparabilmente il volto di Dio nell’uomo e il volto dell’uomo in Dio, il solo volto che non si chiude mai perché la sua trasparenza è infinita, il solo sguardo che non pietrifica mai, ma che libera. Volto dei volti, chiave di tutti i volti”.
Il cristianesimo, dunque, come religione dei volti, non delle filosofie e dei precetti, dei discorsi, dei libri e delle parole, ma della Persona, del Verbo di Dio fatto carne e diventato esperienza per ciascun uomo. In questo sguardo che non pietrifica, in questa esperienza che ha tutto il rigore e l’esigenza del rapporto personale, il cristianesimo, liberato dalle astrazioni dei sistemi e delle loro imposizioni, ritrovava la sua capacità di investire tutto il cosmo, di liberarlo dal suo peso. Il cristianesimo non era più il rifiuto del mondo, della storia e della carne, anzi li ritrovava con una pienezza che il mondo, la storia e la carne non sapevano più di avere: questa nostra modalità di esistenza, intessuta di morte e di corruzione, non era più l’ultima parola sull’essere; come spiegava Clément citando Berdjaev, “non si può dire che la carne sia un principio malvagio e degno di morte perché sarebbe peccaminoso nella sua essenza stessa, è vero piuttosto che essa deve essere trasfigurata e risuscitata perché nello stato in cui si trova attualmente muore e va in disfacimento, soffre e patisce, non è né eterna né libera”.
La Chiesa e il mondo, distinti e irriducibili l’uno all’altra, non erano più separati e contrapposti, ma uniti in un progetto nel quale il mondo stesso ci veniva restituito proprio “nella profondità della Chiesa che, mediante i sacramenti, o meglio in quanto unico sacramento “pneumatico” del Risorto, altro non è se non il cosmo in via di trasfigurazione”.
Il cristianesimo, come esperienza dell’incontro personale con Cristo, era dunque inseparabilmente l’incontro di Cristo nella Chiesa, nell’oggettività dei sacramenti, dove l’uomo era liberato dal proprio soggettivismo e dalla propria pretesa dell’uomo di salvarsi da solo: l’io ritrovava se stesso incontrando un tu irriducibile alle proprie creazioni; l’intellettuale francese educato alla modernità cartesiana del cogito ergo sum riscopriva la maggiore attendibilità dell’es ergo sum.
Se il pensiero di Clément ha sempre avuto lo spessore della vita e ha sempre saputo comunicare questo spessore è proprio perché è nato dall’incontro con la vita sul limitare della morte, quella morte che aveva assalito gli uomini del XX secolo e che spesso questi uomini stessi si erano creati, credendo di potersi liberare da soli. Ricordando la propria conversione e ricordando che era stata la vittoria sulla solitudine del proprio io, Clément aveva scritto: “Una sera ho guardato a lungo, molto a lungo, le vene del legno sul mio tavolo. Tutto era presente, tutto era bene. Mi sono detto che Kirillov aveva ragione. Di già, traversando le strade, non evitavo più le macchine: essere nulla, essere tutto, tutto è uguale. Stavo per uscire per evitarle un po’ meno. Allora Qualcuno m’ha guardato. Lui, sull’icona. Non giocherò a fare l’illuminato. Tutto era silenzio, parole del silenzio. Ma silenzio di Lui, parole di Lui, in una profondità più grande di quella dell’io, in una profondità in cui non ero più solo”.
L’io si era ritrovato in Cristo, non aveva perso nulla di quello che era, neppure il proprio male e i propri dolori: il primo avrebbe dovuto essere purificato nel corso di tutta la vita, i secondi sarebbero stati i mattoni di una lunga costruzione, ma intanto davanti a quel tu l’io era rinato: “Mi ha detto che esistevo, che voleva che io esistessi, e dunque che non ero nulla. Mi ha detto che non ero tutto, ma responsabile. Che il male era quello che facevo. Ma che, ancora più profondo, lui c’era. Mi ha detto che avevo bisogno di essere perdonato, guarito e ricreato. E che in lui ero perdonato, guarito e ricreato”.
In Cristo l’uomo non è più il nulla, ma non diventa magicamente il superuomo che si era sognato, diventa piuttosto responsabile, cioè libero: il che è molto di più. Nelle conferenze, numerosissime, che hanno segnato l’attività di Olivier Clément, di fronte alle domande che il pubblico gli poneva, non c’era problema che il suo cristianesimo lasciasse senza risposta, ma non c’era mai risposta che togliesse il dramma della libertà e che privasse quindi l’ascoltatore del fascino della vita che lo attendeva. “Tieni il tuo spirito nell’inferno e non disperare”, era una delle massime che Clément evocava spesso richiamando i grandi spirituali alla cui scuola si era formato, su tutti, i Padri della Chiesa; nell’inferno del mondo contemporaneo l’uomo non era solo, era con la compagnia di Cristo disceso agli inferi e con questa compagnia poteva affrontare ogni dolore: il dolore non era tolto, ma nella forza di chi aveva vinto la morte l’uomo trovava la forza per non esserne più condizionato, per essere pronto ad affrontare ogni prova senza che quella prova potesse determinarlo.
Il centro di tutto era dunque Cristo; in lui tutto diventava miracolo: “Che qualcosa esista e non il nulla, che qualcuno esista e che non sia soltanto un pezzo di materia ma un volto, non è già un miracolo? Per chi sa guardare, tutto è miracolo, tutto è immerso nel mistero, nell’infinito. La più insignificante delle cose è un miracolo. E ancor di più lo è ogni incontro”. Ma questo è possibile soltanto in Cristo perché “senza di lui la religione “sarebbe rimasta un’astrazione”; senza di lui “l’unione reale con Dio sarebbe impossibile””.
Ma la centralità di Cristo per Olivier Clément era la centralità della Chiesa, senza della quale Cristo rischiava ogni volta di essere ridotto alla fantasia soggettiva delle idee o dei buoni sentimenti dell’umanità, perché “fuori dalla comunione interna alla Tradizione di Cristo, non si può vederlo né comprenderlo; si vedranno sempre elementi separati, Dio nel cielo e l’uomo sulla terra”. E ancor di più, ancor più dolorosamente, per un ortodosso che viveva in un Paese tradizionalmente cattolico, per un ortodosso assetato dell’unità, questa separazione tra il cielo e la terra veniva sottolineata dalla separazione storica dell’oriente e dell’occidente, alla quale Clément non è mai stato tentato di rispondere con ricette tranquillizzanti o con progetti arrischiati; a tutto ciò preferì piuttosto la via difficile ma entusiasmante della conversione personale. Quelli che lo incontravano erano conquistati da questa prospettiva e dalla sua amicizia, e con lui iniziavano uno scambio di esperienze nel quale proprio le diverse conversioni all’unico Cristo aprivano “la possibilità di ritrovare l’unione non attraverso la via – presto sbarrata – di un riaccorpamento sociologico o di un aggiustamento concettuale, ma innanzitutto attraverso il recupero creativo del senso vivente dell’unica Chiesa nella diversità delle sue tradizioni”.
È tra l’altro questa sfida che ci lascia oggi Olivier Clément, la sfida rivolta a ciascuno di noi perché ciascuno di noi recuperi il senso vivente dell’unica Chiesa nella diversità della tradizione in cui gli è stato dato di incontrare Cristo e di vivere in Cristo; il resto è in Dio, “il futuro è in Dio. Le volontà di Dio riposano nell’eternità. Esse entrano nel tempo quando il tempo è maturo, quando si offre. Il nostro compito è quello di far maturare il tempo”.
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