Famiglia Cristiana n.52 del 28 Dicembre 2008
Natale a Betlemme: incontro con il Patriarca Fouad Twal
«Non è buffo? Nella mia prima Messa di Natale da patriarca nella chiesa della Natività, a Betlemme, augurerò a tutti la pace. Proprio la cosa che in Terra Santa ancora non abbiamo. Ma la pace politica non è certo l’unica: c’è la pace del Signore, quella che il mondo non può dare e i politici non riescono a immaginare, un atto di fede nell’uomo e nel futuro. La pace del Bambino di Betlemme, quella che cambia i cuori e vale per cristiani, ebrei e musulmani».
Sua Beatitudine, monsignor Fouad Twal, è patriarca di Gerusalemme dei Latini, dal marzo 2008. Ha alle spalle una lunga carriera diplomatica e incarichi delicati: è stato il primo vescovo arabo (è nato in Giordania) di un Paese del Nord Africa, la Tunisia. Ma gli chiedo che cosa provi ora nell’indossare le vesti del più alto rappresentante della Chiesa locale della Terra Santa. «Sono conscio della mia responsabilità e dei miei limiti», risponde il patriarca. «Se il Signore mi ha scelto quale sono, forse aveva voglia di lavorare da solo. Non deve contare troppo su di me ed essere sempre pronto a intervenire. E lui interviene, sento la sua presenza ogni giorno, anche attraverso tanti amici e uomini di buona volontà che mi stanno accanto. Un pellegrinaggio come quello che Famiglia Cristiana compirà nei prossimi mesi, sulle orme di san Paolo, ci fa capire che i cristiani di Terra Santa non sono soli, che la Chiesa madre ha ancora tanti figli pronti ad aiutarla. Ogni tanto, per scherzo, dico che la nostra, più che una Chiesa madre è una Chiesa nonna: siamo invecchiati, siamo pochi, siamo poveri. E spesso abbiamo l’impressione che il nostro Venerdì santo non avrà mai fine. Ma Gerusalemme non può prescindere dalla Croce: se lui è caduto, caduto e caduto e poi si è rialzato, come possiamo stupirci se anche a noi toccano ingiustizia e incomprensione?».
– I cristiani di Terra Santa non si sentono isolati, dunque?
«Dipende. La politica internazionale si interessa poco al nostro destino, l’influenza degli Usa e di Israele è dominante, in Europa abbiamo tanti amici che, però, possono fare poco per modificare questo meccanismo. Ci arrivano tanti aiuti, è vero. Ma non ciò di cui abbiamo più bisogno: la pace, e con essa la giustizia. Anzi, temo che gli aiuti creino un nuovo e paradossale status quo, in cui l’anormale diventa normale e i grandi della politica si limitano a gestire il conflitto, invece di risolverlo. Ma io spero sempre. Spero anche contro la speranza».
– Perché?
«Perché è la nostra vocazione di cristiani. Lo dico sempre alla nostra gente: ci vuole la vocazione, per restare in Terra Santa. Chi guarda solo all’occupazione militare che dura da sessant’anni, al presente che non promette nulla e al futuro incerto, spesso sceglie l’emigrazione. Chi parte avrà casa, lavoro e dignità, non vedrà più muri, né check point. Ma non avrà la Terra Santa. Per questo, sono contento quando chi parte si ferma in Giordania. Intanto, resta sotto la nostra cura pastorale, perché il Patriarcato di Gerusalemme si estende su Palestina, Israele, Cipro e, appunto, Giordania. E poi, anche se la gente non lo sa, o lo dimentica, la Giordania è Terra Santa: Paolo VI, nel 1964, e Giovanni Paolo II, nel 2000, cominciarono da lì la loro visita, e certo lo farà anche Benedetto XVI».
– Nel suo recente viaggio in Italia, lei ha incontrato il Papa. Certo avrete parlato del suo prossimo viaggio. In che momento arriva una visita così attesa?
«Israele, la Giordania, l’assemblea degli Ordinari cattolici in Terra Santa: tutti abbiamo invitato il Papa. Noi cristiani ne abbiamo bisogno per riconfermarci nella nostra fede, nella nostra terra, nella nostra identità di minoranza cristiana (il 2% in Israele, il 3% in Giordania), in una massa ebraica e musulmana. E certo, Israele e Giordania ne approfitteranno dal punto di vista politico, per manifestare la loro apertura. Io spero che per l’occasione Israele mostri un po’ di fiducia nella Chiesa e alleggerisca il regime dei visti che così tanto tormenta preti e suore. Spero capisca che la Chiesa è un ponte di riconciliazione che può servire alla causa della pace e della sicurezza per tutti».
– Il suo popolo cosa chiederà al Papa?
«Non solo il mio popolo, ma tutti, ebrei e musulmani compresi, chiedono una sola cosa: la pace. E certo il Santo Padre non farà mancare il suo appello. La pace è un dono di Dio, ma è affidata agli uomini, quindi tocca a loro convertirsi, cambiare testa e cuore. La situazione politica adesso è difficile, in gennaio ci saranno le elezioni nell’Autorità palestinese e in febbraio in Israele, ma certi gesti si potrebbero comunque fare. Basta con gli insediamenti illegali, con i posti di blocco, con un Muro che non garantirà mai la sicurezza di alcuno. Sicurezza e pace saranno di tutti o di nessuno, non possono nascere da un’imposizione unilaterale».
– Israele ha pur fatto gesti concilianti…
«È vero. Due volte ha liberato grandi gruppi di prigionieri palestinesi, una cosa certo positiva. Speriamo che ne liberi altri, perché nelle sue prigioni ci sono ancora 10 mila detenuti palestinesi. E lo dico proprio perché ammiro la campagna solidale di tutto il popolo israeliano per liberare un solo soldato, il caporale Shalit, ancora prigioniero a Gaza».
– In Palestina, quali sono i rapporti tra musulmani e minoranza cristiana?
«In Palestina non c’è alcuna differenza tra cristiani e musulmani. C’è un solo popolo palestinese e tutti patiscono le stesse sofferenze, sperano nella stessa pace. Ai check point nessuno ti ferma perché sei cristiano o musulmano, ma solo perché sei palestinese. Tra cristiani e musulmani ci sono a volte incidenti e scontri. Anche a Betlemme. Ma mai per ragioni politiche o religiose. E ciò che di brutto succede deriva dall’assenza di un Governo palestinese stabile e forte, capace di garantire ordine e giustizia. Fa parte del problema generale e credo che Israele dovrebbe aiutare al massimo i moderati di Abu Mazen. Se i moderati non riescono a risolvere i problemi, è normale che la gente si rivolga a politici più radicali».
– Il patriarcato è impegnato anche in molte concrete opere sociali.
«È vero, ci tocca essere qualcosa di più che vescovi. E, ancora una volta, lavoriamo per tutti. L’ospedale di Beit Jala cura chiunque, e se pensiamo che noi cristiani siamo il 2% della popolazione, vuol dire che cura soprattutto gli altri. Ed è così per tutte le nostre istituzioni. Ma è il nostro compito. Pensiamo ai bambini: nelle scuole, nelle parrocchie, nei centri sociali, cerchiamo di creare un’atmosfera di gioia e serenità. È un grande sforzo, perché appena escono tutto ciò che hanno intorno li spinge, invece, alla violenza e al rancore. È uno dei nostri modi per costruire la vocazione a restare qui, nella Terra Santa».
Fulvio Scaglione
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