Toscana Oggi n.31 del 7 Settembre 2008
Speciale Fondazione Giovanni Paolo II
Il Mediterraneo rappresenta un punto cruciale per l’avvenire del pianeta. Qui si gioca una partita decisiva per la pace; per una cooperazione capace di determinare le condizioni di uno sviluppo che, ponendo al centro la persona e dunque l’ambiente, assicuri a tutti i popoli una credibile prospettiva di giustizia e progresso; qui può essere sconfitto o viceversa divenire il tornante della storia del secolo appena iniziato quello scontro di civiltà che ha bisogno, per affermarsi, di ridurre le grandi religioni monoteiste a ideologia delle nazioni.
Anche per questo il contributo delle religioni alla pace, all’incontro tra diverse etnie, che si affacciano su un medesimo mare, è più che mai indispensabile.
La scelta di Papa Giovanni Paolo II di condanna della guerra in Iraq è stata fondamentale per evitare che il cattolicesimo fosse vissuto nel mondo, in particolare tra i poveri e nei paesi non sviluppati, come appiattito sull’Occidente ed i suoi interessi, come una sua bandiera ideologica anziché un messaggio universale. Così appare non soltanto commovente, ma la strada giusta quella della giornata della pace voluta dal Papa ad Assisi, tra tutte le religioni. Ogni confessione religiosa impegnata in una sua preghiera, ma tutte le preghiere rivolte al perseguimento della pace.
Hanno visto giusto quanti hanno saputo cogliere per tempo la rinascita del Mediterraneo, il suo riproporsi, dopo secoli di declino, al centro di scambi non solo economici. Il Mediterraneo torna a rivestire un’importanza geo-politica di rilievo mondiale: in esso si affaccia e si misura con l’opulenza contraddittoria dei paesi sviluppati il continente africano. È dalle differenze di ricchezza e da quelle demografiche che nascono le impetuose correnti migratorie dei nostri tempi, non certo governabili se ridotte alla sola dimensione dell’ordine pubblico; sulle sue rive est e sud è protagonista della vita politica e civile una religione – quella musulmana – che affronta i processi di secolarizzazione della modernità senza aver fatto i conti con la laicità, principio cardine di ogni ordinamento democratico; attraverso di esso si presentano all’Europa i nuovi protagonisti della vita economica e politica dei prossimi secoli, Cina e India tra tutti. A questa rinascita del Mediterraneo non si accompagna purtroppo la soluzione delle crisi endemiche che da anni lo sfregiano: innumerevoli guerre e conflitti, espliciti o latenti, grandi come quello che ancora impedisce una sicura convivenza tra Israele, i palestinesi, le nazioni arabe; piccoli e crudeli come quelli che distruggono, in scontri civili interminabili, antiche convivenze e sterminano minoranze etniche, culturali, religiose. Per dirla in modo chiaro la rinascita del Mediterraneo, avviene al di fuori di un progetto politico di grande ambizione, all’altezza del terzo millennio. Un progetto che ridefinisca le sfide, gli obiettivi di quest’area; che sia in grado di realizzare pace e collaborazione; che collochi il Mediterraneo all’interno della costruzione di relazioni stabili nel pianeta, di un impegno per fare dell’Onu un embrione di governo mondiale, dopo l’ubriacatura dell’unilateralismo dell’unica superpotenza; ne faccia un attore di politiche per la sostenibilità capaci di fronteggiare il surriscaldamento della terra.
La rinascita del Mediterraneo avviene fino ad ora nell’assenza di soggetti politici in grado di recitare un ruolo da protagonisti. Di recente l’iniziativa della Francia dell’Unione per il Mediterraneo ci consegna la speranza che un vuoto possa essere colmato: ma è una speranza, appunto, che richiede la verifica di una continuità, di scelte concrete e coraggiose. Del resto nell’ultimo decennio si sono registrate due tendenze, entrambe negative: da un lato l’asse della politica europea si è sensibilmente inclinato ad est; dall’altro l’Unione Europea stessa sta attraversando un periodo non breve di crisi e di blocco politico. Ne sono una testimonianza le vicende prima della Costituzione europea, poi del nuovo Trattato di Lisbona, ancora sotto scacco per il no espresso nel referendum irlandese.
Sappiamo bene, sulla base dell’esperienza del passato, che tante politiche di cooperazione, di sicurezza, di impegno sui diritti umani portate avanti dai singoli Stati nazionali non realizzano una politica degna di questo nome, capace, con la sua forza e il consenso che sa suscitare, di segnare l’avvenire dei popoli. È in fondo questo ciò che più è mancato al partenariato euromediterraneo lanciato a Barcellona nel novembre del 1995. Infatti di quell’insieme dei progetti, l’unico ad essere in parte avvicinato nella sua dimensione complessiva riguarda la creazione di un’area di libero scambio. Essa tuttavia non realizzerà fondamenta di stabilità, di pace, di impegno contro ogni violenza, di collaborazione tra i paesi che si affacciano sul Mediterraneo se non si affermerà di nuovo tra essi l’idea di un destino comune. Proprio la riscoperta di questo destino comune e il contributo possibile alla civiltà umana attraversano e legano i colloqui Mediterranei voluti da Giorgio La Pira a Firenze, a partire dal 1958. Già nel primo di essi, in quel lontano 3 ottobre di cinquanta anni fa, la Pira metteva in evidenza la «vocazione o missione storica comune» che consisteva «nel fatto che i nostri popoli e le nostre nazioni sono portatori di una civiltà che, grazie alla incorruttibilità e alla universalità dei suoi componenti essenziali, costituisce un messaggio di verità, d’ordine e di bene, valido per tutti i tempi, per tutti i popoli e per tutte le nazioni».
La Pira individuava i «componenti essenziali» nella comune radice religiosa, in quel Patto di alleanza con Dio che rende «il tempio, la cattedrale e la moschea… l’asse attorno al quale si costruiscono i popoli, le nazioni e le civiltà …»; nella metafisica elaborata dai Greci e dagli Arabi, alla quale «si deve l’immensa ricchezza di idee… che costituiscono intellettualmente e artisticamente la bellezza stessa della civiltà di cui i nostri popoli… sono portatori»; nell’ordine giuridico e politico elaborato dai romani, i cui «elementi maggiori costituiscono il tessuto essenziale dove si articola ogni ordine sociale e umano autentico». L’universalità di queste tre componenti «fanno sì che questa civiltà sia in grado di attraversare i secoli e le generazioni senza temere cambiamenti definitivi e rotture nell’essenza. Come tutti gli organismi viventi, essa è capace di integrare e ordinare in sé – donando loro spazio e valore – gli elementi di crescita che la storia gradualmente le presenta…».
Se questa è la «suprema vocazione comune» quale risposta devono dare i popoli e gli Stati del Mediterraneo per portarla avanti con coerenza?
La risposta per La Pira è evidente: «la pace, l’amicizia, la solidarietà reciproche…».
Nel discorso di chiusura del quarto colloquio, nel 1964, sottolineava di nuovo come il fine della storia sia «costituito dalla pace, dall’unità e dalla civiltà del genere umano…» e aggiungeva parole impegnative per il ruolo di Firenze. «Firenze vi dice ancora: ricordatevene. Voi siete suoi figli, idealmente iscritti nel suo stato civile; nella sua storia; nel suo destino; nella sua missione; ella è – come vicaria di Gerusalemme – proprio destinata da Dio a questo: annunciare la benedizione e la pace nella casa e nella famiglia di Abramo, e in tutte le case e presso tutte le famiglie degli uomini!». In questi cinquanta anni sembra a volte che il destino comune sia stato sostituito dall’incombere di emergenze, dal diffondersi di una sfiducia reciproca, dalla necessità di fronteggiare sfide – dall’acqua all’energia, dall’inquinamento alla sanità, dalle migrazioni al terrorismo – nelle quali i paesi delle diverse sponde del Mediterraneo vedono gli altri come responsabili più che come partner di un impegno comune. Del resto sulla sponda est del Mediterraneo si è avuta una guerra, quella del Kosovo, che, per spietatezza e azioni di genocidio, ha almeno eguagliato i crimini del fascismo e del nazismo. In quella tragedia si è anche brutalmente strappata la tela della convivenza secolare tra etnie portatrici di fedi religiose diverse.
Il tumultuoso svilupparsi di migrazioni dai paesi della costa sud alle nazioni dell’Unione Europea, sta provocando in questi ultimi l’emergere di tendenze culturali e politiche egoistiche, di chiusura, nelle quali il legittimo bisogno di legalità e sicurezza sconfina a volte e si confonde con atteggiamenti di rifiuto, di ostilità che alimentano gruppi e partiti xenofobi.
È dunque un sogno e niente più quell’ordine «umano mediterraneo, fondato sulla giustizia e sulla felicità, elemento decisivo della civiltà mondiale di domani», del quale si parlava ai colloqui Mediterranei? E se non lo è quali sono gli ostacoli che ne rendono ardua la realizzazione e gli strumenti per rimuoverli? Sottolineiamo ancora una volta gli assi portanti della nostra lettura del Mediterraneo. È un’area di civiltà o per meglio dire, come ci ricorda Scipione Guarracino, «di civiltà al plurale», avendo ospitato «nella sua storia, in successione e contemporaneamente, civiltà diverse che hanno trovato nel mare interno qualcosa di più di una collocazione geografica e fisica, traendone quegli elementi vitali che hanno fatto la loro comune mediterraneità». Queste civiltà si sono tutte collocate in un sistema di relazioni e scambi, non soltanto economici ma anche di popolazioni, tanto che una caratteristica dell’area mediterranea è quella del «crogiolo, del meticciato».
L’altro aspetto chiave è l’affermarsi della vita urbana. Nel «…Mediterraneo la città è il punto di partenza dell’identità culturale e del prestigio sociale. Manca dai suoi caratteri originali la differenza e la contrapposizione tra città e campagna… La città mediterranea antica concepiva la cittadinanza non come semplice residenza ma come partecipazione politica e stabiliva un’equazione tra urbanesimo e civiltà …».
Questo rapporto tra cittadinanza e urbanità non si esprime in modo altrettanto forte in altre aree: non in Europa «che vide sorgere il suo primo motore di sviluppo nelle campagne medievali e che nei monasteri e nei castelli conservò a lungo i centri culturali e del potere». Nel Mediterraneo, per usare un’espressione di Maurice Aymard, «non sono le città a nascere dalla campagna, è la campagna a nascere dalla città». Il mondo mediterraneo ha inventato la città-stato. A lungo i paesi mediterranei e soprattutto le città sono state multiculturali, multireligiose e multietniche. È la diffusione del modello degli Stati nazionali, nel XIX e XX secolo, in tutto il Mediterraneo che si dimostra incompatibile con la coesistenza di etnie, culture e religioni diverse.
È qui che ci incontriamo di nuovo con il presente.
La crisi degli Stati nazionali in Europa, la loro difficoltà a cambiare ed a riformarsi, per un verso è di impedimento al pieno dispiegarsi dell’Unione Europea, al suo divenire una vera democrazia sovranazionale; dall’altro rende non pienamente raggiungibile quell’incontro tra Europa e Mediterraneo, quello svilupparsi di una comune visione della persona e della famiglia umana che risulterebbero essenziali oggi per sconfiggere ogni scontro tra civiltà e contribuire a realizzare un più giusto ordine internazionale. Il disegno della Francia di Sarkozy di una Unione per il Mediterraneo si colloca in questo complesso crocevia. È importante perché, per quanto in parte ridimensionato dagli altri Stati europei, si muove all’altezza di un disegno politico che diviene preminente, assumendosene le responsabilità, rispetto ai settori individuati come prioritari per il rilancio di una cooperazione rinnovata. È importante ancora perché l’incontro di Parigi sembra aver contribuito a dare nuova linfa al processo di pace in Palestina tra Israele e mondo arabo e ad un ruolo di moderazione e di possibile autonomia della Siria. Al tempo stesso un progetto per il Mediterraneo ha bisogno di avere come protagonista l’Europa. È l’Unione Europea come grande potenza democratica e civile che ancora manca.
In questo vuoto gli Stati nazionali si illudono di essere ancora protagonisti ma in realtà nella loro incapacità di autoriforma e nel loro anacronistico resistere alla nascita dell’Europa politica, anziché farsene levatori, si consuma un logoramento della democrazia e si creano le condizioni per nuove rotture. Per opporsi alla convivenza di una pluralità di etnie, culture, religioni alcuni vecchi Stati nazionali si dividono, così da conservare identità omogenee.
Non è la via del futuro. Per questo mi appare fondamentale riprendere a ragionare di Mediterraneo e di Europa, confrontarsi nel merito di proposte all’altezza della sfida, costruire una politica che non inaridisca nel piccolo cabotaggio dei vecchi e ristretti confini di casa, scambiati per il nuovo mondo.
La città e le Regioni hanno un compito grande in questa prospettiva, come La Pira aveva capito. Se la loro azione non si disperde in mille rivoli disordinati, se non sono mosse dall’ambizione sbagliata di sostituirsi agli Stati ma operano come costruttrici della nuova Europa e per una stagione di pace, cooperazione, progresso nel Mediterraneo.
Città e Regioni non sono sospettabili, neppure in modo strumentale, di ingerenza: possono affrontare con le città delle altre rive del Mediterraneo i temi di uno sviluppo rispettoso del primato della persona, del diritto all’uguaglianza delle opportunità, dei diritti umani e della non violenza.
Se guardiamo una carta geografica vediamo il ruolo oggettivo che l’Italia ha in Europa e nel Mediterraneo: a colpo d’occhio si registra che la funzione originale dell’Italia in Europa risiede in questa sua collocazione di paese al tempo stesso europeo e mediterraneo. Non solo il passato e la storia, ma il presente dovrebbe caricare l’Italia di questa responsabilità, farla essere capace di portare il Mediterraneo in Europa e l’Europa nel Mediterraneo. Dovrebbe, appunto. Per ora questo compito lo ha assunto la Francia e la speranza, oggi, passa per Parigi.
Vannino Chiti,
membro del Comitato scientifico della Fondazione Giovanni Paolo II
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