Toscana Oggi n.30 del 3 Agosto 2008
Speciale Fondazione Giovanni Paolo II
Abbiamo pensato di fare qualche domanda a don Giovanni Sassolini, sacerdote della diocesi di Fiesole, da meno di un anno parroco della Collegiata di Figline Valdarno, che fa parte del Consiglio d’amministrazione della Fondazione Giovanni Paolo II.
Don Giovanni, può dirci qualcosa del vostro lavoro?
«Ci sono riunioni mensili, in cui ci confrontiamo per decidere insieme le risposte alle richieste pervenuteci. C’è poi da seguire l’andamento dei lavori e delle iniziative affidate alla Fondazione. L’anno scorso siamo stati in Libano e Siria, questa primavera a Gerusalemme, sempre per verificare sul posto l’esito e il risultato dei progetti. Siamo coscienti di gestire somme affidateci dalla fiducia di benefattori privati o pubblici».
Qual’è il suo rapporto con la Terra Santa?
«Anche per curiosità di materie scolastiche quali storia e geografia invitai i miei due compagni di Messa a celebrare il quinto anniversario dell’Ordinazione sacerdotale con un pellegrinaggio in Terra Santa. Due mesi dopo, nel giugno del 1973 vi tornai, senza programmazione ma per un invito di colui che è oggi il vescovo Rodolfo Cetoloni. Per la sua Ordinazione mi chiese di accompagnare a Gerusalemme i suoi genitori. Ero cappellano nella parrocchia del Giglio a Montevarchi, ma non ci conoscevamo neppure. Io colsi l’occasione per portare anche mia madre, sessantenne ma curiosa e devota. Da allora ogni anno per una o due volte sono ripartito, con amici e parrocchiani. Da circa trent’anni ci vado come guida dell’Opera Romana Pellegrinaggi. Adesso c’è tempo e modo per i pellegrinaggi diocesani, a parte i viaggi per la Fondazione. Potrei dire che di una terra come quella, ma anche dell’Italia si può dire, non si esaurisce mai la conoscenza geografica, storica, culturale. Ma poi c’è il dato del legame essenziale religioso che ti fa sentire non un ospite o pellegrino, ma cittadino a pieno titolo di quella regione che puoi chiamare Israele quando parli con gli Israeliani, che dici Palestina se stai con gli arabi, o altrimenti Terra Santa e va bene per tutti, soprattutto per i cristiani, anche se sono pochi. A Gerusalemme, insomma, un cristiano è a casa sua».
Qualche immagine nella mente che non si può cancellare?
«La Betlem come città morta, in quelle due ore in cui potremmo entrare qualche giorno dopo l’assedio alla Basilica della Natività. Eravamo un piccolo gruppo e oltre le strade ridotte ad un campo lavorato dai carri armati, il vederne uno in mezzo alla Piazza della Mangiatoia, come un tragico monumento. Lo spiammo dalle finestrine della soffitta del convento, avanzando carponi sul tetto. Gli oltre duecento palestinesi rifugiati e assediati avevano mangiato anche le foglie dei limoni del chiostro di santa Caterina. C’era ancora una grossa lunga striscia di sangue… su un davanzale. Ma ricordo anche le colonne di cemento della Millennium Hall, che ogni mattina controllavo salire dalla mia camera di Casanova. E non capivo ancora cosa si realizzasse. Sempre a Betlem ho visto il bel restauro della Cappella della Madonna del Latte. Era uno dei posti che mi dava più disagio e non ci andavo più. Adesso è un luogo di attrazione per quel senso estatico di semplice bellezza. L’artista padre Costantino Ruggeri ci ha lasciato un testamento prezioso».
E tornando più indietro nel tempo, quali sono gli altri suoi ricordi?
«Ancora scendendo da Gerusalemme, ma non a Gerico come dice la parabola, bensì verso ovest, o meglio verso l’aeroporto per il ritorno in Italia, noto alcuni vecchi autoblindo e cannoncini, nella gola di Latrun . Sono verniciati di rosa per antiruggine e restano monumenti dell’avanzata verso la conquista di Gerusalemme. Parlo della primavera del 1948. Consiglio ai pellegrini un romanzo (storico, ma romanzo) Gerusalemme, Gerusalemme di Lapierre e Collins, per capire ciò che è stato, ed è anche oggi, quella città anche per gli Ebrei, cioè i religiosi, e gli Israeliani, cioè i cittadini di quella nazione. Il libro uscì nel 1971, ma Gerusalemme è già oltre i tremila anni».
In Italia si ha sempre l’idea di una grande zona di guerra.
«I pellegrini sono nelle mani di Dio, come sempre e ovunque, ma gli uomini israeliani e palestinesi sono seriamente impegnati a non torcere nemmeno un capello a nessun pellegrino. Certo avvertiamo un gran disagio di sofferenza che in fondo prende anche te e si può chiacchierare quanto si vuole, ma l’unica cosa da fare è pregare per la pace di Gerusalemme».
Riguardo al paesaggio, ha notato qualcosa che l’ha interessato in meglio o in peggio?
«Potrei dire, ma non è una battuta, che chi sta peggio è il Mar Morto. Il Giordano porta sempre meno acqua e ogni anno quella grande distesa d’acqua con il trenta per cento di sale, si abbassa di un metro. Si è ridotto in pochi anni di circa un terzo come estensione. Si riesce a salvare il Monte Tabor dagli assalti di chi ne vorrebbe fare un luogo per pic-nic e dotarlo anche di una teleferica… Anche la riva nord del Lago di Galilea, quella di Magdala, Tabga, Cafarnao, per adesso resiste alla speculazione di chi pensa a stabilimenti balneari. Già, Cafarnao, che dire della costruzione sulla casa di Pietro e di Gesù? Ha salvato questi importantissimi e sicuri resti archeologici. In quel luogo si dice che la nave di Pietro oggi ha la forma di un’astronave».
A voi guide è chiesto di esprimervi sul confronto, o meglio sul rapporto tra le vecchie pietre di antiche costruzioni e le nuove pietre, quelle viventi oggi, cioè i cristiani. Come se la cava?
«È stupido pensare di eliminare una delle due. Nel riconoscere e riscoprire il Vangelo di Gesù, nella sua Terra, dove Lui è passato, proprio le sue parole sull’amore al prossimo si fanno più vicine e presenti. E siamo chiamati ad essere «prossimo» evangelico subito lì dove – si vede – c’è povertà, ma ancor più ingiustizia, negazione della dignità della persona e di un popolo. E dove c’è anche irragionevole violenza e vendetta. Oggi dicono terrorismo. Per questo in questi ultimi anni ci facciamo un dovere di andare a visitare due bellissime istituzioni proprio a Betlem, la città-prigione per quel muro di nove metri che la chiude, rasente proprio la Crèche (che vuol dire presepio) di Suor Sophie, un orfanotrofio per bambini palestinesi retto dalle Suore della Carità, o il Caritas Baby Hospital, retto da Suore Elisabettine, italiane, con tanti bambini malati nelle forme più gravi e anche incurabili. In quei posti capita di andar via davvero a malincuore non per quello che si è visto, ma per quel che si è ricevuto dalle Suore, dalle mamme e da quei bambini che dopo averli presi in collo e aver giocato con loro si è tentati anche di portar via…».
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